Le personagge di Maria Rosa Cutrufelli

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Quando cominciate un nuovo libro che cosa viene per primo: un evento, une scena, uno o dei personnaggi?

Nessuna delle mie ‘storie’ nasce alla stessa maniera, ognuna ha una genesi (e di conseguenza una forma) sua particolare. A volte il racconto prende l’avvio da un’immagine vista o intravista per caso, altre volte la molla scatta da qualcosa di più sfuggente, una suggestione letteraria, un ricordo o una fantasia che chiede di diventare corpo e ‘figura’, cioè personaggio. In ogni caso, è la storia che voglio raccontare a suggerirmi da dove o da chi cominciare. E non sempre comincio dal (o dalla) protagonista. Talvolta mi avvalgo di un intermediario per accostarmi alla figura principale del romanzo, e questo mi succede specialmente quando narro di persone realmente esistite: prima di affrontarle direttamente, ho bisogno di ‘vederle’ con gli occhi di chi, nel racconto, gli vive attorno.

Vi sembra che la differenza tra personaggia/gio sia importante? Decisiva? Senza importanza?

Non so (forse non voglio) raccontare storie che relegano le donne in ruoli secondari. Ho bisogno di una figura femminile forte, dal punto di vista narrativo. Non per una specie di ‘pregiudizio’ ideologico o per un qualche ‘risarcimento’ storico verso le ‘eroine di carta’, ma perché sono donna e non posso ignorare questo dato di fatto, che fa parte della mia esperienza viva e dunque della mia scrittura. D’altronde non credo all’androginia dello scrittore o della scrittrice, né (tanto meno) alla neutralità del testo. Come sostiene anche Walter Ong, uno studioso attento alla voce di chi narra, dobbiamo sempre chiederci chi sta ‘dietro’ un racconto o una narrazione. Chi scrive, è ovvio, deve entrare nel cuore dei personaggi che mette in scena, maschi o femmine che siano. E, per far questo, è necessario un profondo processo di empatia. Ma l’empatia, per quanto grande possa essere, non potrà mai cancellare l’ombra che il corpo di chi scrive getta sulla pagina: un’impronta originaria da cui non si scappa. E che sarà sempre, inevitabilmente, un’impronta di uomo o di donna.

Quando il personaggio si è confermato o imposto lo lasciate continuare il proprio cammino, in altri termini trovate che i personaggi abbiano o no una vita autonoma?

I romanzi di solito possiedono una struttura più articolata dei racconti, perciò devono avere mura solide e basamenti ben piantati. Sono costruzioni che rispondono a una logica architettonica. Tuttavia, a differenza dei palazzi, un romanzo è costruito con le parole, e queste di sicuro non hanno la stessa consistenza dei mattoni o del cemento. In altri termini: quando mi accingo a scrivere un romanzo, cerco sempre di costruire un’impalcatura robusta e di sapere in anticipo il carattere o almeno le caratteristiche principali dei personaggi. Ma poi le cose si complicano e nel corso della scrittura, proprio come nella vita, accade l’imprevisto. Così d’un tratto le mie ‘creature’ si emancipano e sfuggono alla mia tutela ribellandosi al destino che avevo tracciato per loro. Diventano autonome. Anzi, in un certo senso, si scrivono da sé: si ‘autodeterminano’. E a questo punto le sento ‘straniere’, come può essere ‘straniero’ un figlio quando si stacca dalla madre.

Quale tra personaggi (maschili e femminili) delle vostre letture avete amato di più?

Come lettrice, ho amato moltissimo Daniela, la protagonista di “Ballata levantina”, il romanzo forse più bello di Fausta Cialente (catalogato dai critici come ‘esotico’, perché narra la comunità degli espatriati italiani in Egitto). Ho amato Daniela per il suo modo incauto di stare al mondo e di lasciarsi sorprendere dai sentimenti: un’anti-eroina.

Quali dei vostri personaggi/e amate di più?

Per quel che riguarda i miei personaggi, il discorso è difficile… Li ho strappati tutti dall’anima, mi sono costati cura e fatica… Non riesco a fare graduatorie. Ma forse, se proprio devo esprimere una preferenza, allora la mia scelta cade su Anna Paola, la protagonista de ‘Il paese dei figli perduti’. Una ragazza testarda, alla ricerca di un padre sconosciuto: una semplice storia di ‘formazione’, in realtà, ma che mi corrisponde intimamente. E magari è per questo che Anna Paola è la ‘figlia di carta’ che più mi sta a cuore.

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