Cyberdemocrazie, Avatar e corpi di mezzo

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Del ruolo che hanno avuto i social network nella primavera araba si è scritto molto. Che a scriverne fossero due donne, Ouejdane Mejri e Afef Hagi, la prima blogger e docente d’informatica al Politecnico di Milano, presidente di Pontes, associazione dei tunisini in Italia; la seconda ricercatrice al Dipartimento di Scienza della Formazione dell’università di Firenze, mi ha incuriosita e sono andata ad ascoltarle  in occasione della presentazione del libro scritto a quattro mani La rivolta dei Dittatoriati. Parola quest’ultima ostica, difficile da memorizzare, coniata dalle autrici per indicare chi, come loro, nate alla fine degli anni settanta, sono cresciute “interioriozzando  meccanismi di sopravvivenza e di difesa che hanno permesso di convivere con il regime senza farsi schiacciare».

Il regime, come sappiamo, è quello di Ben Alì in carica per 23 anni. Una “democrazia del partito unico” dall’occidente, Italia e Francia per prime, riconosciuta e sostenuta. Altrimenti definita dalle autrici “dittatura morbida” che ha spettacolarizzato il potere tramite la costruzione di un reality show quotidiano dove l’eroe Ben Alì “baluardo nella lotta contro il pericolo islamista” curava fin nei minimi particolari mise, trucco,  tinta ai capelli e botox  per comparire sempre giovane, e il popolo è stato infantilizzato con la favola del re buono. Una favola che abbiamo visto ripetersi anche in sistemi più dichiaratamente democratici.

Per descrivere il tipo di democrazia tunisina, “spazio di rappresentazione fallace”, “immagine riflessa da uno specchio deformante”, le autrici ricorrono al dispositivo disciplinare di sorveglianza e controllo di Foucault. Un regime che crea uno spazio da vivere, dimensione inautentica, priva di libertà e contrassegnata dalla paura, al fine di “produrre  corpi deboli e docili”,  cioè i dittatoriati.

Chi sia esattamente il dittatoriato lo spiega Ouejdane Mejri in un’intervista: «Quando arrivi in un Paese come l’Italia ti confronti con la cittadinanza, con un’altra modalità di vivere i diritti e i doveri, allora apri gli occhi e ti riconosci dittatoriato. I dittatoriati non sono solo i tunisini «sono i cinesi, o tanti altri popoli che vivono sotto le dittature. Perfino tanti  italiani del Meridione … in riferimento al sistema creato dalla mafia, dalla camorra, dalla criminalità organizzata».

Chiarita la figura del dittatoriato, ciò che rimane non chiara, nel libro, è la rappresentazione  dell’uso dei corpi, e più esattamente il rapporto tra i corpi e quella che le autrici chiamano “cyberdemocrazia”.

L’accesso a internet, liberalizzato dal regime nel 2010, seppure “limitato, epurato e utilizzato per catturare informazioni, intercettare conversazioni e raccogliere dati”, insieme al possesso di telefonini videocamera, e alla età mediamente bassa della popolazione – le rivolte, come sappiamo, sono state un fenomeno prevalentemente giovanile, di classe media, che ha dimestichezza con internet e parla inglese e francese – permetterà in sole due settimane che “dalla Tunisia del silenzio e del non detto, del sentito dire senza mai vedere, siamo diventati testimoni di quanto avviene nel nostro Paese”.

Il telefonino videocamera, scrivono le autrici, “diventerà prolungamento del corpo da parte di chi affrontava il regime che fino a poco tempo prima era impensabile contrastare”. Sarà come  “riappropriarsi dei propri organi di senso,  un gesto naturale, mettendo in circolo prove inconfutabili della ferocia del regime. L’inautentico spazio da vivere fatto coincidere dal regime con lo spazio da vedere della propaganda, viene invaso da un nuovo spazio vero, visibile e pubblico … Una sorta di Avatar rivoluzionario, guerriero della rete, alter ego del rivoluzionario in piazza, punto d’intersezione tra spazio materiale (la piazza) e virtuale, materializza coi suoi atti, la sua immagine, il nuovo cittadino tunisno, rendendo chi lo abbraccia parte di una rinnovata comunità a prescindere dall’età, provenienza, pelle religione … connesso giorno e notte. Tante soggettività agenti diventano UNO”. E più avanti si legge: “tra l’essere corporeo  e l’Avatar in rete sussiste una continuità. Questa specie di ologramma del ribelle in strada, anche se privo di presenza fisica tangibile, ne condivide le caratteristiche e agisce in uno spazio dislocato … l’assenza del vincolo fisico ha facilitato l’espressione dei pensieri in tempo reale, ben oltre le possibilità offerte da uno spazio fisico come un’assemblea, ma soprattutto la parola scritta soppianta sugli schermi quella orale riacquistando i significati delle parole. La prima sperimentazione di una cyberdemocrazia”.

La mente non può non andare all’Avatar di James Cameron, con la pelle blu a strisce, filiforme e trasparente, alto tre metri, creato in laboratorio dal dna umano con quello alieno, utilizzato dai militari per infiltrarsi in una società` di viventi collegati tra loro come sinapsi all’interno di un cervello. Mentre il corpo fisico (maschio) giace al sicuro dentro l’urna di vetro, il suo alter ego, in contatto telepatico con l’Avatar, vive emozioni e percezioni sensoriali come fosse il suo vero corpo.

Sarebbe dunque questa, mi sono detta,  la fine dei corpi auspicata dalla cyberdemocrazia, sia che si tratti di realtà o di fiction? Il libro non lo dice, limitandosi a parlare di “fine del cittadino-fantasma della dittatura”.

Le videocamere però ci hanno fatto assistere alla fine che hanno fatto i corpi, forse non previsti, di molte attiviste femministe o semplicemente donne, dunque sessuati, che hanno riempito le piazze in Tunisia, in Libia, in Egitto, in Siria: bastonate, denudate, stuprate dal vivo. Su una donna addirittura si è insistito citando nel particolare un reggiseno blu sotto il burka, comparso durante l’aggressione.

E la mente adesso non può non andare al corpo denudato di Amina Tyrel, la diciannovenne tunisina arrestata, picchiata, sottoposta dalla famiglia a visite mediche di vario genere, interdetta dal frequentare qualsiasi tipo di scuola, che si è fatta fotografare a seno nudo con la scritta “il mio corpo mi appartiene e non è di nessuno, al diavolo la vostra morale”. Un tipo di scrittura, la sua, segnata sulla parte proibita del corpo, e rigorosamente in lingua araba, per fare resistenza alla dittatura che quei corpi vuole “afferrare” per renderli innocui.

A proposito di corpi imbrigliati che si ribellano, mi viene in mente, e mi scuso dei continui rimandi,  un’inchiesta sui comportamenti delle donne  arabe che in anonimato fotografano e mettono in rete parti del corpo: i piedi, il corpo, le unghie che normalmente sono costrette a nascondere.

Un tipo di resistenza, quella di Amina,  ben diversa da quella auspicata dalle autrici del libro, che parlano di scrittura “sugli schermi”, e nelle pagine iniziali affermano:“sopravvivere alla dittatura significa stare zitti, vivere oggi significa … passare dall’orale allo scritto, dal racconto al saggio, dalle emozioni sentite a quelle scritte  e scrivere in italiano, lingua del nostro presente”. O quando in una ideale lettera alla madre rimasta in Tunisia, parlando del proprio corpo, scrivono: “si, mamma, non vivo più in Tunisia, non ho potuto in quei giorni esserti vicina e tenerti la mano in piazza per urlare insieme la nostra voglia di libertà e di dignità . Ma c’ero … non solo con la mente, col cuore, ma anche con il corpo. Un corpo trascurato e in tensione appiccicato al computer giorno e notte. E per dirti che c’ero scrivo questo libro. Un libro che non leggerai mai perché non sai leggere …”.

Laddove non esiste una dittatura, totalitaria o morbida che sia, a produrre “corpi deboli e docili” ci pensa una forma più insidiosa di potere che noi, vissute in democrazia, conosciamo meglio: la biopolitica, che non produce morte, come la dittatura, ma “garantisce e cura la vita mettendo al centro la norma, senza lasciare spiraglio alcuno di libertà”. Contro questa forma di potere, è solo rimettendo al centro il dispositivo di sessualità, come Angela Putino ci ha insegnato,  che si fa resistenza: corpi sessuati, esposti, sudati, arrabbiati, e imprevisti, come i corpi delle Femen,  e soprattutto  coniugati al plurale, non assemblati, o composti in un comune fondamento. Corpi  che si  mettono di mezzo, garantendo la “funzione guerriera” per combattere dall’interno quel potere – dittatoriale o biopolitico – che vuole rendere i corpi trasparenti, compiuti, senza resti: simile ad Avatar, appunto. Nulla a che vedere con i cyborg immaginati dalle artiste “arrabbiate” le cui performance sono state raccolte nel 1997 nel testo Meduse Cyborg. Corpi in carne ed ossa, nudi, dipinti, esposti in vetrine, provocanti al limite del blasfemo, potenziale eversivo, capace di decostruire i rapporti di potere sui quali si sono costruite le moderne democrazie.

Ciò detto rimane comunque indiscutibile il fatto che corpi virtuali hanno reso possibile, e dunque reale, una rivoluzione. Così come è indiscutibile che nei paesi arabi il dopo rivoluzione – la storia si ripete in ogni dove –  non sembra segnato dal corpo/presenza femminile.

Ciò di cui mi piacerebbe invece discutere e se e quanto l’avvento rivoluzionario possa essere “facilitato” nel suo accadere da un potere di tipo tradizionale: patriarcale, visibile, personificato  nella figura del dittatore (in questo caso Ben Alì); e quanto invece  il biopotere, onnipervasivo ma invisibile – forma più moderna e insidiosa di potere che “promuove, garantisce e cura la vita biologica mettendo al centro la norma” – e dunque “in apparenza” democratico, lo inibisca.

Ouejdane Mejri, Afef Hagi La rivolta dei dittatoriati, presentazione di Gad Lerner, Mesogea, Messina 2013, 144 pagine, 15 euro

Meduse Cyborg, Antologia di donne arrabbiate, Shake edizioni Underground, Milano,1997;

Angela Putino, I Corpi di mezzo,Ombre corte, Verona 2011;

Renata Pepicelli, Femminismo islamico, Carrocci, 2010;

Leena Ben Mhenni, Tunisian girl La rivoluzione vista da un blog, edizioni Alegre, 2011.

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