Tunisia, una nuova geografia delle relazioni

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Arion_3luglio-213x300“Dovremmo cambiare prospettiva. Guardare la frontiera da sud. E magari ridare un nome alle cose con la lingua di chi viaggia su quelle barche”. La frase è di Gabriele Del Grande, fondatore dell’Osservatorio sulle vittime di frontiera nella prefazione al libro “Il sole splende tutto l’anno a Zarzis”. Chi viaggia sono gli Harraga “quelli che bruciano le frontiere” insieme ai documenti per non farsi identificare.

Chi invece ci ha provato, a guardare la frontiera da sud e a ridare il nome proprio ai tanti volti anonimi che abbiamo visto sbarcare a Lampedusa, avvolti in scialli o nella carta argentata, è Marta Bellingreri, 28 anni, palermitana, autrice del libro e mediatrice culturale per minori non accompagnati, innamorata della Tunisia e della sua luce. Perché a Zarzis il sole splende tutto l’anno. Come a Palermo “nonostante cadano palazzi e chiudano parchi”.

Gli harraga, dunque, dall’autrice definiti “vomito di vita del Mediterraneo, a sedici anni spinti vivi casualmente dalle onde in mezzo a decine di morti”.

Sono queste le storie che Marta Bellingreri tenta di ritessere. Storie di giovani ragazzi conosciuti durante la lunga permanenza a Lampedusa, nella primavera del 2011, dopo la cacciata di Ben Ali, insegnandogli l’italiano. Adolescenti che scappano non solo dalle guerre e dalla dittatura, ma anche solo per inseguire un sogno: l’Europa, l’Italia. Perché loro un sogno nel cassetto ancora lo custodiscono, e per esaudirlo sono disposti a tutto. Perché in Tunisia, malgrado la rivoluzione, non si vedono “né sorrisi né speranza”.

Storie di ragazzi, dunque, come quella di Ward che ama il rap; e di Lofti, che ha quindici anni ma da quando ne aveva sei sogna di andare in Europa. O come quella di Sayfeddine, approdato a Linosa col suo falco Zgigou, col quale, a Susa, si faceva fotografare a pagamento dai turisti, ma appena sbarcato gli verrà sequestrato perché da noi è specie protetta. Di Said, sbarcato a Lampedusa col Corano miracolosamente asciutto, mentre lui era tutto bagnato per il mare agitato. E ancora: di Slah, Mohammed, Mouheddin, Eskander, Achraf, Lajad “tutti piccoli e spelacchiati”.

Marta ritesse il filo tornando al punto d’origine: il paese da cui le storie sono partite. Con sé porta un computer per far rivedere su Skype i figli ai genitori.

“A Lampedusa infatti ad un certo punto i ragazzini sparivano, trasferiti da un giorno all’altro. Non avevo più idea di dove fossero … sentivo che dovevo lasciare il mio numero a qualcuno per non perdere le loro tracce: dove sono, da dove vengono, perché sono qua”.

Sono queste le domande che spingono Marta a girare in lungo e in largo la Tunisia: da Sidi Buzid, dove Mohammed Bouazizi si è dato fuoco dando il via alla rivoluzione dei gelsomini, a Capo Bon; da Zarzis, a Gabes, nel deserto; e poi a Mednine, fino al Sahel, utilizzando una cartina che Achraf le ha regalato segnando il posto dove abitava. Achraf proviene da un villaggio sul mare la cui costa, il Capo Bon, è talmente vicina alla Sicilia che si vede Pantelleria quando il cielo è chiaro. Ma Achraf, scoprirà Marta, ama Rimini “spiaggia mare e divertimento”, mentre lì, a capo Bon c’è “solo spiaggia e silenzio”.

A Jelma, 40 chilometri a nord di Sidi Buzid, conosce i genitori di Aladdine e Machoor, approdati a Lampedusa a luglio per poi proseguire per Roma e per Lione. Machoor aveva 16 anni, ma già a 12 si era trasferito a Tunisi dove vendeva sigarette e calzini, e a 13 aveva già dormito con una prostituta un po’ più grande di lui al Mourouj, il quartiere periferico.

A Zarzis ci va per conoscere la mamma di Mouheddin, che si era ammalata dal giorno della partenza del figlio, ma lui non lo sapeva, e nel centro di accoglienza l’aveva disegnata in riva al mare mentre guarda la barca che si allontana. A Gabes, a sud della Tunisia, invece conosce l’amico di Mohammed. Voleva diventare padre a sedici anni con una ragazza di Bergamo, che invece sarà costretta dalla madre ad abortire. A Mednine, nella sua casa in campagna, col bagno turco all’aperto nel freddo di febbraio, i materassi per terra e il kanun di terracotta come unico mezzo di riscaldamento, conosce Meriem, la mamma di Said.

Da questi viaggi, oltre al kanun, porterà con sé il ricordo dei chicchi di melograno sgranocchiati mentre parlava, e il profumo di zahr, l’essenza tratta dai fiori d’arancio, insieme a quello di alloro, di cui era impregnata l’aria.

“Cos’altro hai portato con te da quei luoghi?” ho chiesto a Marta dopo la presentazione del suo libro.

 “Dalla Tunisia, da questi viaggi e da questi incontri ho riportato a casa una nuova cartina geografica. Quella che mi ha regalato Achraf non era stata ancora vissuta. In essa mancavano talvolta dei nomi di località minori, naturalmente mancavano i nomi dei quartieri. La nuova cartina, tracciata da telefonate, incontri e nomi segnerebbe una nuova geografia delle relazioni, come ho scritto nel libro alla fine dei ringraziamenti, e che per me valgono tantissimo. Grazie dunque a tutti gli harraga perché hanno scarabocchiato le frontiere, contribuendo a disegnare una nuova geografia transnazionale. Questa geografia parte dalle relazioni e dagli scambi che noi creiamo in Tunisia, come in Italia. Ho portato con me tanti regali dalle mamme dei miei ragazzi: un segno di gentilezza e ospitalità e anche gratitudine”.

 Guardare la frontiera da sud, ha cambiato la tua prospettiva?

“Certamente la mia prospettiva è cambiata molto negli anni. Fin dal mio primo viaggio in un paese arabo, la Siria, nel 2006, fino all’ultimissimo, in Marocco. E sì, il cambiamento, la differenza la fa proprio la lingua. Imparare l’arabo mi ha immerso ancora più dentro a questo mondo. Sono questi incontri, con le famiglie dei giovani harraga, che ti danno le parole e ti fanno cambiare lingua, oltre a quelle che parli e impari”.

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Marta Bellingreri, Il sole splende tutto l’anno a Zarzis, Navarra Editore, 2014, Pagine 128, 12,00€

Marta Bellingreri, Lampedusa.Conversazioni su isole, politica, migranti, Edizioni Gruppo Abele, 2013

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