Le personagge di Clara Sereni

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Quando cominciate un nuovo libro che cosa viene per primo: un evento, une scena, uno o più personnaggi?

Un personaggio (quasi sempre una donna) già calata in una situazione che serve a raccontarla.

Vi sembra che la differenza tra personaggia/ggio sia importante? Decisiva? Senza importanza?

Ho raccontato molte più donne che uomini. Prima di tutto perché le conosco di più, so dove andarne a pescare sentimenti ed emozioni. Poi perché le donne mi sembrano più ricche di contraddizioni, e la chiave di ogni possibile raccontare è la contraddizione. Quando racconto di maschi mi pongo molti più problemi, soprattutto (ma l’ho fatto finora solo in un caso) se il personaggio maschile parla in prima persona, e dunque io pretendo di dire cosa pensa un maschio. Mi piacerebbe che gli scrittori, quando si mettono nei panni di una donna, facessero altrettanto. Si ponessero qualche volta il problema che stanno per o dovrebbero entrare in un’ottica diversa, e si chiedessero se hanno o no abbastanza strumenti. Non voglio dire che sia vietato assumere i panni di un altro genere: solo che ci vuole rispetto, pensiero, disponibilità più che in altri casi a mettersi in discussione.

Se si tratta di un personaggio questo (lui o lei) è legato a un ricordo, a un fatto di cronaca, a un avvenimento storico, personale o collettivo, a un’immagine, a una frase …?

In un modo o nell’altro, i personaggi hanno sempre a che fare con la propria (o almeno la mia) esperienza. Per quanto io possa inventare, è sempre e solo dentro di me che posso pescare la materia stessa dell’inventare e del raccontare. In questo senso può esserci anche una frase, un episodio, un fatto di cronaca che mi sollecita. Mi è capitato per esempio per uno dei racconti di “Eppure”, intitolato Una cloche di rafia nera: lo stimolo fu un episodio di cronaca nera, che è stato però soltanto un punto di partenza. Mi capita invece più spesso di sentire il bisogno di “dire qualcosa”, qualcosa di molto teorico, per esempio la voglia di raccontare un dato meccanismo psicologico che ho chiaro in mente, e che poi devo rivestire di racconto. Qualche volta mi riesce, qualche volta no, e quando è no in genere è perché l’assunto iniziale era fin troppo chiaro, e per questo non sono riuscita a dargli carne. Mi è capitato ad esempio per un racconto che avrei voluto inserire in “Manicomio primavera” e del quale non sono mai riuscita a venire a capo, proprio perché ne erano troppo chiari i presupposti.

Quando il personaggio si è confermato o imposto lo lasciate continuare il proprio cammino, in altri termini trovate che i personaggi abbiano o no una vita autonoma?

A me non capita che i personaggi “mi trascinino”. Mi capitano personaggi che mi occupano la testa a tempo pieno, questo sì: perché devo riuscire a capire come farli arrivare dove voglio che arrivino. Caso mai c’è un problema di coerenza interna al personaggio.

Secondo voi, i personnaggi /le personagge sono più forti o no dell’autore/autrice?

Faccio l’esempio del “Gioco dei regni” perché lì i personaggi, prima di essere tali, erano persone, e dunque dovevo loro particolare riguardo, non potevo attribuire loro emozioni, sentimenti, azioni incongruenti rispetto alla realtà che avevano rappresentato (uso non a caso il termine “rappresentare”: perché penso che ciascuno/a di noi, e qualcuno/a più di altri, intenda determinare il proprio essere personaggio sulla ribalta della Storia, anche quella minuta, famigliare). 
Quello che è più forte di me e che a volte mi prende per mano, caso mai, è il gusto letterario, che fa da binario in molte scelte. L’esempio più evidente è il personaggio di mia nonna Alfonsa, che era in “Casalinghitudine” un cammeo tutto in nero, una piccola apparizione di una persona che in effetti ho detestato, e alla quale non mi interessava in quel momento dare altro spessore. Quando Alfonsa, però, è diventata deuteragonista del “Gioco”, allora è intervenuto il gusto letterario, quella tal cosa che mi fa annoiare quando leggo (e peggio quando scrivo) un personaggio o una storia tutti bianchi o tutti neri. E’ a quel punto, e in ragione del gusto letterario, che per darle spessore, per darle una storia, ho fatto un’operazione di tipo diverso, andando a cercare il bianco e il nero. Di nuovo e inevitabilmente dentro di me, dentro le mie esperienze.

Vi è capitato di essere state sorprese dal sopraggiungere di un personaggio inaspettato? In che modo il personaggio/la personaggia è una straniera/uno straniero per voi? O al contrario qualcun/a di estremamente intimo?

Non inaspettato, ma straniero da raccontare mi è apparso e mi appare il maschile, anche (e forse di più) quando la costruzione del personaggio ha a che fare con qualcuno di molto vicino. 

Quale tra personaggi (maschili e femminili) delle vostre letture avete amato di più?

Potrei fare più bella figura, e pensare ai classici o comunque alle letture “importanti”. Ma a botta calda, e andando alle origini, credo che sia la Jo di “Piccole donne”: non è difficile capire perché. Insieme a lei anche la Bibi di Karin Michaelis, personaggio eversivo, passato chissà come anche attraverso le maglie del fascismo, e faro di luce radiosa nella mia disciplinatissima infanzia.

Quali dei vostri personaggi/e amate di più?

Non ce n’è uno in particolare. Ma direi che amo molto i personaggi delle madri, che certe volte diventano suocere: personaggi ingombranti sempre per chi ha da farci i conti, e nella vita le ho maltrattate quanto basta e anche di più. Proprio per questo, mi sembra che scrivendo sono riuscita a restituire un po’ di quello che spettava loro di diritto.

 


 

Clara Sereni è nata a Roma nel 1946, e vive da molti anni a Perugia, dove ha ricoperto incarichi amministrativi e politici. Opinionista de “L’Unità”, attiva nella promozione della salute mentale con la Fondazione “La città del sole”-Onlus, è autrice di numerosi volumi di narrativa: il primo successo di pubblico e di critica è giunto nel 1987 con “Casalinghitudine”, per riconfermarsi poi con i racconti di “manicomio primavera” (1989) e con “Il gioco dei regni” (1993), romanzo in cui l’autrice riesce a rappresentare in modo magistrale le passioni politiche e le contraddizioni storiche del secolo novecentesco, narrando le complesse vicende dei rami paterno e materno della propria famiglia. 
Mentre il percorso narrativo prosegue con “Eppure” (1995) “Passami il sale” (2002) “Le merendanze” (2004) e “Il lupo mercante” (2007), Clara Sereni cura anche i volumi collettivi “Mi riguarda” (1994), “Si può!” (1996) , “Amore caro – a filo doppio con persone fragili” (2009), storie di relazione e riflessione personale con la malattia mentale e le persone portatrici di handicap. In “Taccuino di un’ultimista” (1998) sono invece raccolte le note, gli articoli e gli interventi elaborati in un periodo di intensa attività politica, misurandosi con le forme del potere dalla prospettiva di una donna sempre impegnata nella società civile.

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