Silvia Giovanna Rosa è una giovane studiosa e Italiane d’Argentina. Storia e memorie di un secolo d’emigrazione al femminile (1860-1960) è la sua prima monografia. Eppure Silvia si misura da qualche anno con la scrittura; in particolare ricordo le due sillogi poetiche Di Sole Voci (2010) e SoloMinuscolaScrittura ( 2012) che hanno avuto una notevole attenzione. I temi poetici della scrittura di Silvia si muovono fra luoghi concettuali che ho incontrato anche nel suo primo saggio: il corpo sessuato come narrazione del sé, la relazione attraverso la severità dello sguardo proprio e altrui, il desiderio che interferisce tra opacità e nitore della parola. Questi tre elementi fanno delle sue scelte un sentiero disseminato di piccole e impreviste visioni, come questo suo ultimo lavoro in cui l’esattezza espositiva diventa un modo – a tratti perturbante – di restituirci la verosimiglianza di voci non proprie ma che la riguardano in prima persona. La polifonia introdotta da Silvia, così precisa e interrogante, mi appare quando comincio la conoscenza delle sue italiane d’Argentina.
Come ricorda Paola Corti nella bella prefazione al tuo volume, seppure gli studi di genere in riferimento all’emigrazione femminile italiana siano maturi e generosi, circa l’esperienza peculiare delle emigrate in Argentina c’è ancora poco. Tenuto conto di ciò, questa monografia rappresenta certo una mappatura preziosa e interessante. Mi piace partire dalla dedica a Teresa Sardo, tua prozia. Vorresti raccontare anzitutto di lei, di cosa ha rappresentato nella tua genealogia, insieme alla ragione che ti ha spinta ad occuparti di un tema così complesso come quello dell’emigrazione delle donne in Argentina?
Questa ricerca nasce da un interesse che ha radici intime e profonde, scavate lontano nel tempo e alimentate a lungo da un intenso desiderio. O meglio, da una necessità: scoprire e comprendere il difficile cammino dell’emigrazione, che ha condotto una parte della mia famiglia, insieme a milioni di italiani, al di là dell’oceano, verso quella terra fantasmagorica, sconfinata, piena di città con strade lunghe di lucine e insegne colorate, gremite di passanti, come io sognavo fosse l’Argentina, ammirando con occhi infantili le cartoline postali che mia nonna riceveva ogni tanto da Buenos Aires. A inviarle era sua sorella, la mia prozia, che nel 1949 lasciò l’Italia, al seguito di suo marito e con un bimbo di circa un anno, in cerca di lavoro e di una vita migliore. In casa mia, però, non ho mai sentito parlare di “emigrazione”, né di navi che solcano l’Atlantico, fischiando il suono desolato degli addii: i nostri familiari stavano in America, o semplicemente “laggiù”. In una specie di non-luogo, un angolo ritagliato nell’immaginario, sulla soglia della memoria, da cui ogni tanto giungevano notizie e fotografie di nascite e matrimoni. Curiosità, credo. Forse la voglia di camminare in quella strada da cartolina col nome esotico, Calle Florida, che pareva alludere a giardini in fiore. Non saprei dire perché, ma un bel giorno ci sono finita anch’io in America. E ho conosciuto la mia prozia. I miei cugini di “laggiù”. Certi viaggi, si sa, possono cambiare il corso di una vita. Oppure no, però bastano a creare legami indissolubili con il luogo e con la gente che si è avuto il piacere d’incontrare. A me, per la verità, sono capitate entrambe le cose. Ma questa è un’altra storia. Molti anni dopo quel viaggio, durante il ciclo triennale di studi universitari, mi sono dedicata a un primo lavoro di ricerca sull’argomento dell’emigrazione femminile, una tesi dal titolo “Le donne italiane in Argentina tra storia e letteratura”, in cui tentavo di esaminare alcuni possibili significati che l’esperienza migratoria ha acquisito per le donne, attraverso l’analisi e il confronto delle immagini che la storiografia e la letteratura non scientifica forniscono in merito alle italiane in Argentina. Nel febbraio del 2006 sono ritornata in America, e ho visitato tutti i più importanti luoghi dell’emigrazione italiana che avevo avuto modo di conoscere attraverso gli studi appena conclusi. In quella occasione ho rivisto la mia prozia: lo sguardo vivace, lucido, azzurro di sempre, mentre si adoperava ancora energica a preparare la comida, nonostante i suoi novantacinque anni. Le ho chiesto se potevo farle delle domande specifiche sulla sua storia di italiana emigrata, registrando il colloquio, e lei si è dimostrata subito disponibile. Ad ascoltare la sua narrazione mi sono emozionata: m’è sembrato che, in qualche modo, sebbene ne fossi stata solo una testimone indiretta, mi riguardasse. Questo episodio mi ha stimolato a ricercare altri materiali autobiografici già esistenti sull’emigrazione delle italiane in Argentina, e poi a intraprendere il lavoro di studio e ricerca per la compilazione di una seconda tesi a conclusione del ciclo biennale di specialistica, da cui è nato questo libro. L’anno scorso la mia prozia è scomparsa, all’età di cent’anni. Questo libro è dedicato a lei e alle donne senza volto né nome, che nella quotidianità delle loro ‘normali’ esistenze hanno portato a compimento, in modi e con esiti diversi, la straordinaria avventura del ripensare se stesse in un mondo nuovo. L’auspicio è che le loro storie di vita non siano dimenticate, rimosse, cancellate dalla memoria collettiva e che il loro ritratto – in tutta la sua interezza – non venga occultato, insieme a una parte importante del passato del nostro paese, avviluppato intorno al mondo nel fitto intreccio di sentieri migratori, come fili d’ortica pungenti nella complessa e contraddittoria trama della Storia d’Italia.
Chi erano le donne che decidevano di emigrare e, soprattutto, come si trasformava la loro vita nel tragitto tra il paese natale e la nuova dimora? Hai rintracciato dei profili che in qualche modo le accomunavano?
Rispondere a questa domanda è molto difficile, perché nella mia ricerca ho tentato di ricostruire in un’ottica di genere il fenomeno dell’emigrazione italiana in Argentina durante un secolo, tra il 1860 e il 1960, un lasso di tempo assai ampio, dunque. Apro una piccola parentesi per raccontare che il lavoro ha preso forma in primo luogo attraverso la ricognizione e l’analisi critica degli studi storiografici condotti finora sulle italiane emigrate oltreoceano e in secondo luogo mediante una ricerca sui materiali autobiografici e sulle memorie delle protagoniste. La finalità di questo percorso è stata duplice: rivedere le questioni salienti trattate in ambito storico centrando il fuoco dell’analisi sulla realtà delle donne emigrate e al contempo dare voce alle loro storie e alla dimensione della loro interiorità. Nella prima parte del lavoro, quindi, mi sono proposta di rileggere e declinare al femminile le tematiche centrali della ricerca storiografica sull’emigrazione italiana in Argentina, passando al vaglio tutti gli studi che è stato possibile reperire – sia in ambito italiano che argentino – condotti ad oggi sui comportamenti matrimoniali, la fecondità, le catene migratorie, le reti sociali, le dinamiche transnazionali, l’associazionismo e il lavoro, alla ricerca di precise informazioni relative alle donne. Nella seconda parte del lavoro, invece, ho usato le fonti autobiografiche disponibili sia in ambito italiano che argentino, per raccogliere e indagare le testimonianze delle donne emigrate, ripercorrendo attraverso i loro racconti i temi classici messi in evidenza dalla storiografia d’emigrazione: i motivi della partenza, il viaggio transoceanico, il problema della lingua, l’inserimento nel mondo del lavoro, il processo di integrazione. Non è possibile tracciare un resoconto sintetico di quanto emerso in merito a ogni singola tematica affrontata e questo perché numerose differenze hanno segnano le italiane sia nel contesto di partenza che in quello di arrivo, influendo di volta in volta sui loro ruoli, le loro identità, i loro comportamenti e le loro occupazioni, e rendendo quindi difficile costruire un modello migratorio definibile in modo univoco, o rintracciare dei profili comuni. Tra le differenze più rilevanti vanno annoverate: quelle temporali che determinano fra l’altro un senso d’appartenenza mutato rispetto al paese d’origine e cambiamenti notevoli negli assetti economico-sociali del paese d’accoglienza; le differenze relative alla provenienza territoriale (Nord e Sud, città e campagna, ecc.) e ai diversi contesti d’accoglienza (città, Pampas); le differenze sociali esistenti prima della partenza e quelle prodotte dai distinti percorsi individuali nella nuova realtà; le distanze generazionali: madri e figlie, appartenenti alla stessa famiglia e alla stessa ondata migratoria, infatti, hanno offerto la possibilità di esaminare due immagini spesso contrastanti dell’esperienza femminile all’estero, dell’assimilazione del nuovo ambiente di vita e di lavoro e due diversi modi di confrontarsi con il paese d’origine.
Oltre al classico paradigma che analizza il rapporto tra continuità e mutamento culturale dei ruoli tradizionali femminili nel contesto migratorio, ho preso in considerazione altri fenomeni, che si sono mostrati rilevanti nel loro intreccio con le relazioni di genere, quali ad esempio i rapporti transnazionali. Questi rapporti, come le studiose anglosassoni hanno postulato da tempo, permettono di evidenziare l’autonomia e la partecipazione attiva delle donne al processo migratorio.
Dunque in conclusione questo lavoro ha messo in evidenza l’eterogeneità, la complessità e la pluralità del soggetto donna migrante: non più moglie madre o figlia accompagnatrice dell’uomo, passiva e inesistente – almeno secondo una visione riduttiva a lungo in auge nella storia dell’emigrazione – ma protagonista attiva. In questa ricerca è emerso che le donne hanno svolto un ruolo fondamentale nel dar forma alle comunità degli italiani all’estero e nella creazione di dinamiche sociali ed economiche familiari transnazionali. Si sono rivelate agenti di cambiamento sociale in Argentina, impegnandosi in attività politiche e sindacali. Inoltre, pur essendo le custodi della memoria e dell’identità regionale/nazionale, si sono dimostrate capaci allo stesso tempo di rivisitare, innovandola, la cultura di appartenenza.
Nelle fonti alle quali hai fatto riferimento, si fa cenno anche ai diari e alle lettere in cui sono riportate numerose testimonianze. Raccontano di una corrispondenza fittissima e danno l’idea – per niente sorprendente, a dire il vero – di essere proprio quelle donne il tessuto significativo in termini di relazioni e impegno sociale, politico e di cura. A quali conclusioni sei giunta dall’analisi dei documenti autobiografici da te studiati?
«Le donne hanno saputo raccontare e svelare i vissuti più intimi della propria esperienza di emigrate: le loro testimonianze costituiscono una voce altra, per certi versi un controcanto alla storia degli uomini, che incarna tutte le tonalità della vicenda migratoria, restituendola alla memoria in tutta la sua complessità e interezza. I documenti autobiografici esaminati in questa ricerca sono stati in prima battuta ricondotti alle varie tipologie di afferenza – lettere, autobiografie, storie di vita -, e per ognuna si è provato poi a evidenziarne le caratteristiche salienti in relazione all’universo femminile. In generale quel che si può affermare esaminando i materiali autobiografici è che le tappe descritte nei racconti sono le stesse messe in evidenza dalla storiografia d’emigrazione: il processo di distacco che inizia nel luogo d’origine, ricordato nei minimi dettagli, in cui i preparativi assumono spesso una valenza rituale; il viaggio transoceanico, le cui immagini impresse nella memoria hanno un carattere straordinario e quasi epico; i problemi di adattamento; le difficoltà incontrate nell’apprendere la nuova lingua; la ridefinizione degli spazi d’azione e delle identità; l’esito del processo di integrazione».
Desidero sapere se ci sono state delle testimonianze e delle storie che ti hanno colpita in modo particolare e perché. Potresti raccontarne almeno qualcuna che credi sia più significativa di altre?
«Mi piacerebbe raccontare la storia della mia prozia, che tra l’altro rappresenta in questa ricerca l’unica intervista inedita, perché tutti gli altri materiali autobiografici sono stati estrapolati da ricerche già pubblicate in ambito italiano o argentino (il reperimento delle fonti autobiografiche è stato possibile grazie al notevole sviluppo delle ricerche che negli ultimi anni soprattutto hanno puntato l’attenzione sui gruppi di emigranti di una certa appartenenza regionale: l’impiego di tali testimonianze in questo lavoro ha permesso così una ricomposizione di quel mosaico di esperienze locali/regionali che nel loro complesso hanno costituito la vicenda migratoria dell’Italia intera).
Vorrei però che fosse la voce della mia prozia a narrare la sua vicenda di “italiana d’Argentina”, una voce molto interessante anche perché si esprime in cocoliche, la lingua spuria degli immigrati, un miscuglio di dialetto, italiano e spagnolo. Il termine cocoliche è stato preso in prestito da un’opera letteraria argentina, nella quale Cocoliche è uno dei personaggi protagonisti: è un colono italiano di origine calabrese che insediatosi nella pampa tenta di imitare la parlata dei gauchos. Cocoliche diventa quindi un neologismo per indicare lo spagnolo deformato di chi mischia altre lingue e dialetti. Gli italiani che non ebbero accesso alla scolarizzazione in Argentina, infatti, si inventarono un modo di parlare eterogeneo, con una base piuttosto consistente del dialetto di origine in termini di costruzioni grammaticali e sintattiche, un apporto lessicale della lingua straniera e numerosi prestiti dalle interiezioni tipiche locali usate in modo frequente ma non sempre appropriato.
Riporto dunque alcune parti del racconto della mia prozia Teresa Sardo in Perrone, così come l’ho trascritto riascoltando l’intervista registrata a Buenos Aires nel 2006, e poi a seguire la traduzione in italiano:
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Noi partimo de Italia perché c’era poco trabajo. Me maritu había poco trabajo. E con la ragione ca c’había a l’hermano cá, s’è deciso de vènere all’Argentina.
Mira…propio el día no se quando semo partiti, pero quando llegamo sì…Partimo da Napoli…mira, semo venuti nel ‘49. Io mi sposai nel ’47. Raffaele había once mese, e allura appoi ficimu o passaporto co d’iggiu in brazzu, ca era chiquito. E allura preciso quando partimo de Napoli no lo se, el día no lo se, pero iggiu había once mese. E allura semo arrivati… u viaggiu è stato muy bono, non fu malo u viaggiu, sulo ca stava un poco molesta io, e c’era me cugnata che me aiutava mucho, me aiutò tanto, e allura u viaggiu è stato bono… a parte l’Equatore, no se, unne c’è u mare ma profondo ne ficinu mintere i salvataggi, una manovra…io teneva a Raffaele in brazzu…había un poco miedo perché dissi como io mi posso salvare?…io no sapia natare, dico muoro io e mi hijo…è stata una manovra ca ficinu. Appoi durante il viaggio, ti dico la verità, non la passammo male. Io sulo ca stava un poco molesta, personalmente io, e allura amu cumprato una seggia sdrai, ch’amu purtato puro acá, una seggia sdrai e io stavo acostata dà… mas o meno. Me cugnata purtava certe volte a pasear a Raffaele, però alla notte u tenía sempre conmigo…erano du cama, una abajo e n’atra arriba en el barco… io durmia en aquella de abajo, arriba stava me cugnata.
Me maritu vivía mas allá del fondo del barco, no fondo del barco alla direzione nostra, no… iggi gli hombre stavano a parte. Però quando io me sentía mejore… me sentí meglio, me maritu me venía a pigghiare de unni stàvamu n’da terrazza e mi purtava a n’atra parte, n’assettàvamu n’o sedile e ciarlàvamu un poco, parlàvamu un poco, eppoi io mi bajava a direzione unne ne curcàvamu… Raffaele lu lassava ca dormìa. E allura un poco…perché noialtri viaggiamu a terzera classe, ha’ capi’? E allura come noialtri eramo abajo, sentìamu mucho rumore de lu motore…ebbene, allura facevano la festa, facevano cinema… intro barco, sceglievano la reina…era una di Palermo, na chica de Palermo…sceglievano la reina…
Ora quando semo arrivati all’Argentina, io me purtai un bàulo di robba…di biancheria. E la machina de me cugnata era intra, e quando arrivamo a lu portu…ti dico pure chistu…quando arrivamo a lu portu a Buenos Aire chiddu du porto ha dittu “eh! Quanta robba!”, dice, e ho detto che m’había sposato da poco, infatti era un anno e mezzo che m’había sposato io.
Ancora c’è, cà…la macchina de me cugnata. Appoi me cugnata, siccome io había chico, iggia ancora no se había casato …appoi se casò…e allura como io había chico me dese a macchina a mmia… me maritu disse daccilla a Teresa disse…perché io sempre cocía a ra macchina, facìa pantaloni a me maritu, facìa camise a lo chico…basta…Quando semo venuti cá, mi cugnato ne vinne a pigghiare a lu porto.
Allura me maritu all’indomani [dell’arrivo in Argentina] u fratello s’u portò a lavorare. E così ca iggiu a truvau u trabajo, e trabajava…
Albañil era…muratore, acà diciono albañil. E como l’hermano, lo mismo.
Io no faceva nente, che faceva? Stava dentro…io sempre sugnu stata casalinga.
[Me maritu] no parlava nunca de chistu…ca io iba a trabajare. A iggiu le gustava ca io stava dintra…era geloso se iba a na parte…iba de me cugnata, de me cugnata ca stava cà…si io me tratteneva un poco me diceva “perché stai tanto?” e io ci faceva “tu stai sempre avanti a porta e parli e io no pozzu parlare con ninguno?” [ride] Costumbre, na…
…Allura quando io appoi venni cá, no me sentìa bona, abbi n’aborto…quando arrivai all’Argentina m’entisi male, ha’ capi’? Me sentìa male, mi cugnata había chiamato a nu duttore, u dottore allura a parte dice “la signora no sta tranquilla” ci disse, u dottore le disse a mi cugnata “la signora no sta tranquilla”. Quando io appoi ci dissi ca mi sentiva male, ca rovesciava rovesciava, e allura me cugnata me purtò da na partera, na professora era de partera. Dopo che affui l’aborto m’entisi bona.
[…] Io non sugnu mai stata all’ospitale. Mi cugnata apprima, quando fu l’aborto, mi voleva mandare all’ospitale, ma mi maritu non quiso de ire all’ospitale. Tannu quando era in Italia Raffaele l’ebbi dentro, adentro l’ebbi a Raffaele…
Carmen nacío nel ’50…nascìu a du casa de mi cugnata…
Ah… con me cugnata salía, sempre con me cugnata sempre, sola nunca salía.
Quando ibamo cà a comprare…a comprare u pane…charlàvamu, parlàvamu…
Sì ca m’ intendivano! [Ride] Una era spagnola…sì ca m’intendìa…Appoi io tanta stringa no parlava italiana, perché co dà cosa che da Sicilia me fui a Cosenza, era na parlata mista…
[…] na signora na vota me disse…argentina…dice “che idioma parla?” me disse a mmia, con na supervia…disse ca io arrovinava a mi hijo ca parlava co idioma italiano…allora io le dissi “signora, ci sono lo libro pi leere”…ora Raffaele a tutte parti agghiuto bono, si sacava dieci, quando io se ca terminava el quinto elementare io frequentava lu professore [domandai] “come si porta lu Perrore?”, “Signora è chiddu de dieci” , asì me contestava, e chidde signore rimanevano con da banna de naso, intesi? Erano invidiose. Raffaele era chiquito, però era intelligente…era intelligente, puro quando iba all’infante, le diceva “come se porta l’alunno?”, “Signora se sigue asì…” me dicevano, nunca me dissinu ca no…iggiu se portava muy bono a la scola. Allora terminò il quinto anno cà, la quinta elementare e poi se scrivìu per la…como se chiama? Nazionale…A diecisei anni se recibío de Nazionale, al secondario, intesi?
…Ma io male no la passai… Non me la passava male. Me maritu se mise a trabajare, era muy trabajadore… era sollecito a trabajare…e chistu fu. Appoi all’ultimo terminammo na sta casa, ha’ capì? Allu campo…la terra ca me maritu había comprato no ci semo iuti.
Ah, ca cierto, a principio sì [me mancava mi famiglia in Italia]…ne scrivèvamu sempre, c’era mi hermana…tutti me scrivevanu sempre…io scriveva a me mamma…
Te dico la verità, no había gana di [ritornare in Italia]…quando ci semu iuti, mi faceva l’ora di ritornare all’Argentina, perché me sentiva mas tranquilla…perché como si tu? Vai dà, vai dà, però unni te senti tranquilla? A tu casa!
Ah, ora chistu è me Paise. Italia, sempre è Italia, sempre è la Patria, io non nego a Italia, no nego la Patria…tegnu me parenti, tegnu nipoti…sempre tegnu nu rispettu. Perché io sugnu cà, Italia no vale? Ma no, chistu io no lo dico. Semo venuti cà pe cambiare fortuna.
…Io te dico a verità, no me lamento dell’Argentina, perché io sugno stata una “bon día, bongiorno, bon día” e poi me sugno stata in casa, non è stata a ninguna parte nel mintere a sparlare… a fare…a ninguna parte. Sugno contenta. Tegnu i figli, tegnu a lo hijo…nente, che me falta…ca vaiu a fare in Italia? Ognunu su casati per conto suo, ognuno tene na famiglia per conto suo…ora mano mano ièmo a diminuire, eh…ora c’è un hermano mio ca tiene novantatre…ora na battemo lo do, chi ne vive e chi…[ride]
…perciò…terminamo? io no te tengo nada più a che dire…
“Noi partimmo dall’Italia perché c’era poco lavoro. Mio marito aveva poco lavoro. E con il fatto che aveva il fratello qua, s’è deciso di venire in Argentina.
Guarda…non ricordo proprio il giorno in cui siamo partiti, ma quando arrivammo sì…Partimmo da Napoli…guarda, siamo venuti nel ’49. Io mi sposai nel ’47. Raffaele aveva undici mesi, e allora poi ho fatto il passaporto con lui in braccio, che era piccolo. E allora non so di preciso quando partimmo da Napoli, il giorno non lo so, però lui aveva undici mesi. E allora siamo arrivati…il viaggio è stato molto buono, non fu male il viaggio, solo che stavo poco bene io, e c’era mia cognata che mi aiutava molto, mi aiutò tanto, e allora il viaggio è stato buono…a parte [quando passammo] l’Equatore, non so, dove c’è il mare profondo, ci fecero mettere [il giubbotto] di salvataggio, una esercitazione…io avevo Raffaele in braccio…avevo un po’ paura perché pensavo come posso salvarmi?…io non sapevo nuotare, mi dissi muoio io e mio figlio…è stata una esercitazione che hanno fatto. Poi durante il viaggio, ti dico la verità, non ce la passammo male. Solo che io stavo poco bene, io personalmente, e allora abbiamo comprato una sedia sdraio, che abbiamo portato pure qua, una sedia sdraio e io stavo coricata là…più o meno. Mia cognata certe volte portava a passeggiare Raffaele, però di notte lo tenevo sempre con me…erano due letti, uno sotto e uno sopra sulla nave…io dormivo in quello di sotto, sopra stava mia cognata.
Mio marito viveva più in là al fondo della nave, non al fondo della nave nella direzione nostra, no…quelli, gli uomini, stavano a parte. Però, quando io mi sentivo meglio, mi sentì meglio, mio marito mi veniva a prendere dove stavamo sulla terrazza e mi portava da un’altra parte, ci sedevamo sul sedile e chiacchieravamo un po’, parlavamo un po’, e poi io scendevo nella direzione in cui ci coricavamo…Raffaele lo lasciavo che dormiva. E allora un poco…perché noialtri viaggiavamo in terza classe, hai capito? E allora, siccome noialtri eravamo in basso, sentivamo molto [il] rumore del motore…ebbene, allora facevano festa, facevano cinema…nella nave, sceglievano la regina…era una di Palermo, una ragazza di Palermo…sceglievano la regina…
Ora quando siamo arrivati in Argentina, io mi portai un baule di roba…di biancheria. E la macchina di mia cognata era dentro, e quando arrivammo al porto…ti dico pure questo…quando arrivammo al porto di Buenos Aires quello del porto disse “eh! Quanta roba!”, dice, e ho detto che mi ero sposata da poco, infatti era un anno e mezzo che mi ero sposata io.
Ancora c’è, qua…la macchina di mia cognata. E poi mia cognata, siccome io avevo un figlio, lei ancora non si era sposata…poi si sposò…e allora siccome io avevo un figlio mi diede la macchina a me…mio marito disse dalla a Teresa disse…perché io sempre cucivo a macchina, facevo pantaloni a mio marito, facevo camice al bambino…basta…Quando siamo venuti qua, mio cognato ci venne a prendere al porto.
E allora mio marito all’indomani [dell’arrivo in Argentina] suo fratello se lo portò a lavorare. E così che lui ha trovato il lavoro, e lavorava… Muratore era… muratore, qua dicono albañil. E come il fratello, lo stesso.
Io non facevo niente, che facevo? Stavo dentro…io sempre sono stata casalinga.
[Mio marito] Non parlava mai di questo…che io andavo a lavorare. A lui faceva piacere che io stavo dentro…era geloso se andavo da qualche parte…se andavo da mia cognata, da mia cognata che stava qua…se io mi trattenevo un po’ mi diceva ‘perché stai tanto?’ e io ci facevo ‘tu stai sempre davanti alla porta e parli e io non posso parlare con nessuno?’ Abitudine, no…
…Allora, quando io poi venni qua, non mi sentivo bene, ebbi un aborto…quando arrivai in Argentina mi sentii male, hai capito? Mi sentivo male, mia cognata aveva chiamato un dottore, un dottore allora a parte dice ‘la signora non è tranquilla’ disse, il dottore le disse a mia cognata ‘la signora non è tranquilla’. Quando io poi le dissi che mi sentivo male, che vomitavo vomitavo, e allora mia cognata mi portò da un’ostetrica, una dottoressa era di ostetrica. Dopo che feci l’aborto mi sentii bene.
[…] Io non sono mai stata all’ospedale. Mia cognata prima, quando ebbi l’aborto, mi voleva mandare all’ospedale, ma mio marito non volle andare all’ospedale. All’epoca quando ero in Italia Raffaele l’ho avuto dentro [casa], dentro l’ho avuto Raffaele. Carmen nacque nel ’50, nacque a casa di mia cognata…
Ah…io uscivo con mia cognata, sempre con mia cognata sempre, sola non uscivo mai. […] Quando andavamo a fare la spesa…a comprare il pane…chiacchieravamo, parlavamo… Sì che mi capivano! Una era spagnola…sì che mi capiva… E poi io non parlavo italiano tanto stretto, perché col fatto che dalla Sicilia mi trasferii a Cosenza, era una parlata mista…
[…] una signora una volta mi disse…argentina…dice ‘che lingua parla?’ mi disse a me, con una superbia…disse che io rovinavo mio figlio perché parlavo in lingua italiana…allora io le dissi ‘signora, ci sono i libri per leggere’…ora Raffaele in tutti i posti è andato bene, si prendeva dieci, quando io ho saputo che terminava la quinta elementare sono andata dal professore a domandare ‘come va Perrone?’, ‘Signora è quello del dieci’, così mi rispose, e quelle signore rimanevano con un palmo di naso, capito? Erano invidiose. Raffaele era piccolo, però era intelligente…era intelligente, pure quando andava alle elementari, chiedevo ‘come va l’alunno?’, ‘Signora se continua così…’ mi dicevano, mai mi dissero che no…lui andava molto bene a scuola. Allora terminò il quinto anno qua, la quinta elementare e poi si iscrisse per la …come si chiama? Nazionale…A sedici anni si diplomò al Nazionale, alle secondarie, capito?
[…] Io non me la sono passata male…non me la passavo male. Mio marito si mise a lavorare, era un gran lavoratore… era sollecito a lavorare… e questo fu. E poi all’ultimo finimmo in questa casa, hai capito? In campagna…nella terra che mio marito aveva comprato non ci siamo andati.
[…] Ah, certo, in principio sì, [mi mancava la famiglia in Italia]…ci scrivevamo sempre, c’era mia sorella…tutti mi scrivevano sempre…io scrivevo a mia mamma…
Ti dico la verità, non avevo voglia di [tornare in Italia]…quando ci siamo andati, non vedevo l’ora di ritornare in Argentina, perché mi sentivo più tranquilla…perché come sei tu? Vai qua, vai là, però dove ti senti tranquilla? A casa tua!
Ah, ora questo è il mio Paese. Italia, sempre è Italia, sempre è la patria, io non rinnego l’Italia, non rinnego la patria…ho i miei parenti, ho nipoti…sempre porto rispetto. Perché io sono qua, l’Italia non conta? Ma no, questo io no lo dico. Siamo venuti qua per fare fortuna.
…Io ti dico la verità, non mi lamento dell’Argentina, perché sono stata una [da] “buen día, buongiorno, buen día” e poi sono stata in casa, non mi sono messa a sparlare da nessuna parte…a fare…da nessuna parte. Sono contenta. Ho i figli, ho i nipoti…niente, che mi manca? Che ci vado a fare in Italia? Ognuno è sposato per conto suo, ognuno ha una famiglia per conto suo…ora piano piano andiamo a diminuire, eh…ora c’è mio fratello che ha novantatre anni…ora ce la giochiamo noi due, chi vive e chi…
perciò…finiamo? io non ho più niente da dire…»
Silvia Giovanna Rosa:
Italiane d’Argentina. Storia e memorie di un secolo d’emigrazione al femminile (1860-1960), prefazione a cura di Paola Corti, Ananke Torino 2013, 232 pagine, euro 16.50.
Di Sole Voci, Lietocolle Faloppio 2010, II ediz. 2012 80 pagine, 13 euro
SoloMinuscolaScrittura, La Vita Felice, 2012 74 pagine 10 euro
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