Polonia/ Storia di Papusza, poeta zingara

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Bronisława Wajs – detta Papusza, poetessa dimenticata, incompresa e sconosciuta, è stata riscoperta nel 2013 grazie alla pubblicazione della sua storia scritta dalla giornalista Angelika Kuźniak e intitolata Papusza. In più il film scritto e diretto da Joanna Kos-Krauze e di Krzysztof Krauze “Papusza” (i coniugi-autori del premiato “Nikifor” del 2004) ha fatto riscoprire l’eccezionalità di quest’artista così insolita.

Bronisława Wajs nasce… non si sa quando. Gli zingari non prendono nota delle date sul calendario, regolano il passare del tempo in base al ritmo della natura. Bronisława nacque nel giorno in cui gli agricoltori terminarono la mietitura del grano, metà agosto del 1910 (o 1908 o 1909, secondo le diverse testimonianze). Il padre rimane una figura sconosciuta, la madre è una zingara galiziana. La ragazza cresce in mezzo alla natura, osserva attentamente gli alberi, i fiori, gli uccelli. Di sera siede al ruscello e canta. Sa anche ballare bene. Conosce il potere magico delle erbe. È bellissima, la chiamano “Papusza”, cioè “Bambola”.

Zingarella povera, giovane,

bella come un mirtillo,

denti bianchi come perle,

occhi brillanti come l’oro vero.

Gli orecchini fatti di foglie, eccoli

Come oro genuino son belli (frammento di “Orecchino di foglia”, p. 57)

 Impara a leggere e a scrivere da sola, comprando (e pagando con galline rubate) qualche minuto di lezione dai ragazzi che frequentano le scuole e da una commessa ebrea. Conosce Jerzy Ficowski (1924-2006) – poeta, critico, scrittore, traduttore, studioso di Bruno Schulz e della cultura zingara ed ebrea – che dopo aver letto le sue poesie, s’impegna a promuoverla, a tradurla in polacco (mantenendo l’asprezza dello stile), a farla pubblicare (e dunque guadagnare) e a iscriverla all’Associazione dei Letterati Polacchi con tutti i privilegi che ne derivano, inclusa la pensione. Grazie a Ficowski incontra Julian Tuwim (1894-1953) – uno dei fondatori del movimento poetico “Skamander”, forse uno dei più grandi poeti polacchi – che trova le poesie della Wajs piene d’innocenza e di onestà, virtù che lui stesso cerca di trasmettere. Le creazioni di Papusza sono apprezzate anche da altri, tra cui Wisława Szymborska.

Fino a questo punto la vita di Papusza sembra una favola. La realtà però non è il mondo delle fiabe e così ben presto arriva un’ombra che offusca e distrugge questo mondo idilliaco.

Prima la seconda guerra mondiale, con la persecuzione e la strage degli zingari (il numero totale degli zingari ammazzati in Europa Orientale rimane sconosciuto). L’esistenza ridotta al minimo: la fame attenuata con qualche corteccia, le notti passate fra le canne con le gambe in acqua gelata, il tifo, la morte delle persone care. Dopo il massacro arriva il nuovo regime, nuove regole, nuove persecuzioni. È sterile, adotta un bambino (che chiama Tarzan, affascinata dall’immagine di un ragazzo selvaggio seduto su un ramo accanto a una fanciulla), figlio di uno zingaro e una gagi. Dopo la pubblicazione di qualche articolo sulla cultura zingara di Ficowski e qualche poesia di Papusza, gli zingari smettono di fidarsi di lei, cominciano a trattarla come una spia, traditrice dei loro segreti. La Wajs è costretta a fuggire con il figlio e il marito arpista (in effetti suo zio, fratello del patrigno, molto più grande di lei), ma le persecuzioni continueranno per tutta la vita e la porteranno all’esaurimento nervoso. Bronisława Wajs muore… questa volta la data è certa – l’8 febbraio 1987. Le infermiere diranno che poco prima di morire, Papusza si toccava le orecchie in cerca dei suoi orecchini preferiti, fatti con le galle di quercia:

Dov’è il mio orecchino preferito?

Si sarà nascosto nel bosco selvatico?

Quanto mancano agli occhi neri

Questi miei orecchini cari! (frammento di “Orecchino di foglia”, p. 56).

 Papusza è considerata la più grande poetessa zingara polacca. Zingara, sì, e fiera di esserlo, addirittura rideva quando si sentiva chiamare con quella parola politicamente corretta e artificiale “rom”. Zingara polacca, anche se spesso si sentiva dire di tornare “nel suo paese”. Le poesie trasmettono un senso di pace, anche quando descrivono le persecuzioni più atroci. Saranno i suoi occhi da bambina, meravigliata di fronte allo spettacolo del creato, a diffondere questa unica sensazione di quiete. Proprio come una bambina chiede alle stelle di rendere ciechi i nemici:

Ah, tu, la mia buona stellina! […]

Acceca gli occhi ai tedeschi!

Torci le loro vie!

Non mostrargli la strada giusta!

Conducili per il sentiero infido,

perché sopravviva il bambino ebreo e zingaro. (frammento di “Lacrime di sangue – cosa abbiamo vissuto al tempo dei nazisti in Volinia nel ’43 e ‘44”, p. 68).

 E come una bambina non tratta seriamente i propri versi, anzi, si stupisce ogni volta che qualcuno la considera una persona importante: “Son venuti a parlare con me? Ci sono poeti, ci sono poesie belle, favole meravigliose, ma io son niente. Non possiedo nessuna istruzione, nessuna scuola. Cosa può dire una vecchia Zingara che assomiglia ad un porcino dimenticato nel bosco di autunno? Sono una ragazza povera, vivo sotto il cespuglio. Nervosa, ho un’anima piccolissima. Sono una persona ordinaria, forse peggiore degli altri” (p. 20). Ovvero: “[Dicono che scrivo] poesie, ma non sono poesie. Canzoni. Le poesie son roba diversa. Ci vogliono le rime, la canzone è semplice. La canzone è inferiore. E la poesia è in alto, ci vuole gente istruita. Ci vuole l’università ed io non ho finito neanche una classe. Non posso scrivere poesie”. (p. 70). Come una bambina commette molti errori di ortografia, di sintassi, di interpunzione. Nelle lettere indirizzate a Ficowski o a Tuwim si scusa della calligrafia che considera racchia. Ma è proprio grazie a questo suo modo di scrivere unico che il lettore riesce a vedere meglio il mondo descritto, riesce anch’egli a diventare bambino.

Quello che scrive rimane sempre legato alla sua identità, al suo essere zingara, che la porta a delle considerazioni sorprendenti:  “Oggi se una Zingara è brava, sa leggere meglio il futuro, se è scema non sa più farlo. Dice qualsiasi cosa per guadagnare e andare avanti. Io per esempio leggo il futuro in modo psichico: riconosco se una persona non è di umore giusto e quando è amata e innamorata, riconosco dalla sua fronte che tipo di persona può essere; se è buona o cattiva, se saggia o stupida, se caratterizzata da una forte volontà oppure debole. Quando leggo le carte assumo un’espressione seria e leggo il futuro con la serietà. Lo stesso fa un poeta, penso. Ci deve essere qualche spirito, qualche respiro e subito si sa tutto”. (p. 65). La capacità di osservazione e lo spirito di curiosità la portano alla riflessione sull’origine, sul significato e sul senso della parola: “La mia canzone è silenziosa come una lacrima. Io canto a me stessa, non a qualcuno. Da quando ero bambina qualcosa in me non andava bene. Avevo paura perché non sapevo da dove provenivano le parole, chi me le ha insegnate. Diciamo “foglia”, “uccello”, “prato”, ma è vero quello che diciamo? Forse Dio ha fatto sì che noi ci siamo accordati a parlare così?”. (p. 82).

Dopo molti anni,

ma forse molto prima, tra poco,

le tue mani troveranno la mia canzone.

Da dove è venuta?

Nel giorno o nel sonno?

E mi ricorderai, mi penserai –

era una favola

o vero era?

E ti scorderai

delle mie canzoni

e di tutto. (“Canzone”, p. 83).

 Il 2013 è stato l’anno di Papusza in Polonia. Il libro di Angelika Kuźniak è una forma di reportage dove i frammenti degli scritti della Wajs, le trascrizioni delle vecchie interviste e il racconto della Kuźniak si intrecciano senza un particolare ordine cronologico, ma con la tenerezza di qualcuno che vuole bene al soggetto che sta cercando di ritrarre. Il film di Joanna Kos-Krauze e Krzysztof Krauze, assolutamente fenomenale e girato in bianco e nero, si concentra sull’eccezionalità della figura di Papusza, una donna straordinaria che ha avuto il coraggio di essere se stessa. La pellicola è stata già apprezzata durante il Festival internazionale del cinema di Karlovy Vary.

***

Tutte le citazioni provengono da Papusza di Angelika Kuźniak (ed. Czarne, Wołowiec 2013).

Le poesie provengono dalla raccolta Lesie, ojcze mój [Bosco, padre mio] di Papusza (ed. Nisza, Warszawa 2013).

Trailer del film Papusza (diretto da Joanna Kos-Krauze, Krzysztof Krauze, 2013):

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