Ai primi di marzo è morta Nicole-Claude Mathieu, femminista lesbica materialista che ha condotto fin dagli anni Settanta un’analisi radicale antinaturalista dell’eterosessualità intesa come regime politico fondato sulla gerarchia tra i sessi, tra le autrici raccolte nel volume Non si nasce donna. Il lavoro suo, come quello del gruppo, in Italia è poco conosciuto, soprattutto per la prevalenza del paradigma della differenza sessuale, perciò questa ricerca su teoriche che hanno segnato profondamente il femminismo francese e possono suscitare molti interrogativi, è importante. Il riferimento di partenza è la celebre frase di Simone de Beauvoir volta ad indicare che “la donnità è segnata da un ruolo a lungo subalterno e dal monopolio maschile della tradizione simbolica”. Le femministe del gruppo, impegnate in un radicale antiessenzialismo, si sono raccolte nel 1977 intorno alla rivista Questions Féministes che – contaminata da varie influenze, fra cui il marxismo, la psicanalisi, le teorie anticoloniali e il movimento afroamericano – intende mantenere un forte legame fra teoria e “femminismo-movimento”, tra ”rivoluzione della conoscenza” e “rivoluzione della realtà sociale” (Perilli).
Colette Guillaumin definisce le analisi delle pensatrici del gruppo (Christine Delphy, Nicole-Claude Mathieu, Paola Tabet e Monique Wittig ) come una “rimessa in questione delle ‘evidenze’, forma sacralizzata dell’ideologia” con riferimento al sesso e alla razza che dicotomizzano lo spazio sociale. Rivisitando il pensiero marxista, analizzano l’intreccio tra rapporti materiali e di senso nelle relazioni di dominio da cui nasce la naturalizzazione che s’iscrive efficacemente nei corpi, nel linguaggio, nelle categorie mentali e istituzionali. In realtà il sesso e la razza non emergono come un dato, un’essenza, ma come un marchio (l’equivalente del feticcio marxiano) che nasconde e cristallizza i presistenti rapporti di dominio e sfruttamento.
Le curatrici intendono con questo libro colmare il vuoto esistente in Italia su tali autrici,come evidenzia la bibliografia allegata, e dar conto di un paradigma che da dieci anni dialoga con una nuova generazione di femministe, nell’intreccio con il Black Feminism, gli studi gay e lesbici, l’approccio queer e gli studi postcoloniali. Allo scopo offrono articoli inediti in italiano con brevi introduzioni: dal saggio di Di Cori sull’invenzione statunitense del French Feminism alla riflessione sul genere di Delphy, dall’antropologia materialista di Mathieu alla costruzione sociale della disuguaglianza tra i sessi di Tabet fino al linguaggio fatto di “parole che ti uccidono” in quanto veicola l’ordine straight (intreccio delle nozioni di normalità, rettitudine, ordine e eterosessualità) del pensiero per Wittig.
Interessante in particolare appare Guillaumin per la sua critica al concetto di differenza perché nasconde l’ideale secondo cui “tutti appartengono allo stesso universo, ma in termini di differenti forme dell’essere, per sempre fissate”, perciò mette in guardia di fronte alla sostanziale ambiguità del “diritto alla differenza culturale” (1980). Già nel 1972, come sottolinea Siebert, anticipa sia alcune impostazioni postcoloniali considerando l’ideologia razzista “una organizzazione percettiva della individuazione del simile e del differente”, lo “stato cristallizzato di un immaginario”, sia altre tematiche cruciali, quali i dibattiti tra posizioni femministe bianche/occidentali e posizioni postcoloniali, tra femminismo del privilegio e femminismo della “classe delle donne”: negli odierni processi le conquiste dell’emancipazioni femminile nei paesi ricchi sono state pagate con lo sfruttamento delle immigrate e Guillaumin può aiutare a riflettere ulteriormente sull’uso politico del concetto di differenza nei movimenti delle donne, nella tensione fra liberazione individuale e liberazione collettiva per focalizzare la coscienza di classe.
Mathieu, evidenzia Ribeiro Corossacz, ha studiato le donne come una comunità di oppressione attraversata da altre forme di gerarchizzazione (la classe, l’etnia, la sessualità…) e socialmente percepita come “un gruppo naturale specifico”. Sottolinea, come Tabet, la vocazione comparativa dell’antropologa per allargare il senso delle possibilità umane illustrando modi diversi “per ciò che riguarda la categoria sociologica di sesso e i rapporti tra i sessi”. Fin dai primi anni Novanta ha criticato però le correnti queer del femminismo, in particolare Butler, per il rischio che nascondino le condizioni materiali oggettive dei rapporti di oppressione delle donne e non indaghino le possibilità di agire dei soggetti sessualmente minoritari. Verrebbe cioè lasciata in secondo piano l’organizzazione del sesso sociale che continua a poggiare sull’oppressione, privilegiando gli aspetti simbolici, discorsivi e periodici del genere a scapito della realtà materiale e storica.
Se ogni rottura epistemologica richiede un vocabolario nuovo,e, come invita Wittig, occorre passare al vaglio ciascuna parola, “scuotere il linguaggio nel caleidoscopio del mondo, e, nella misura in cui lo si scuote, operare rivoluzioni nella coscienza” (1992), questo libro stimola a riflettere anche oggi su teoria, parole, esperienze, contribuendo a creare “i germi” di una “rivoluzione cognitiva, ovvero politica”, per non dimenticare mai i rapporti materiali che sottendono qualsiasi problematica.
Sara Garbagnoli e Vincenza Perilli, a cura di, Non si nasce donna. Percorsi testi e contesti del femminismo materialista in Francia, Edizioni Alegre 2013 (Quaderni Viola), 187 pagine, 5,00 euro
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