Il piacere infinito della scrittura. Intervista ad Antonella Cilento

PASSAPAROLA:
FacebooktwitterpinterestlinkedinmailFacebooktwitterpinterestlinkedinmail
Scrivere è questo, credo: aprire un canale e risuonare.
E tutta l’umanità risuona tramite noi.
(Antonella Cilento)

9788804634478-lisario-o-il-piacere-infinito-delle-donne_copertina_piatta_foNon sono un’intervistatrice neutrale. E tanto meno con Antonella Cilento, a cui un lungo rapporto di amicizia mi lega fin da quando nel 2000, a Salerno, in una serata ottobrina di pioggia e reading di poesia, per la prima volta ci incontrammo. E da allora- nonostante il divario generazionale: potrebbe essermi abbondantemente figlia- l’inizio di una condivisione intellettuale e di una convergenza di sguardo, che, pur con differenti modalità espressive, ci rende sorelle e contemporanee nella scrittura. Che, per Antonella, è passione e missione, quotidianità e immaginario creativo, passando, senza soluzione di continuità, dall’impegno lavorativo nel laboratorio di scrittura La Lineascritta – da lei fondato più di vent’anni fa – all’ideazione e alla stesura di saggi, pamphlet, romanzi, ambientati nella contemporaneità o storici, come l’ultimo, Lisario o il piacere infinito delle donne.

Definirlo un romanzo storico è però limitativo. Quest’ultima opera di Antonella Cilento sfugge a una collocazione di genere: è trans-genere, in essa coniugando l’avvincente leggerezza di trame e avventure di un feuilleton allo spessore problematico e di pensiero del romanzo storico, la tensione espressiva di un erotismo misterioso e impossedibile –quello del piacere femminile- a un pastiche linguistico, dove –su una linea di ricerca che da Gadda arriva a Consolo- confluiscono iperrealismo e letterarietà, neologismo e dialetto, traboccanza barocca e deformazione espressionista. Protagonista del romanzo è Lisario, una nobile e giovanissima ragazza, da mesi dormiente e da anni muta per un’operazione sbagliata. Manipolandola sessualmente fino all’orgasmo, Avicente Iguelmano -un medico ciarlatano in cerca di fortuna- la sveglierà, ricevendola dai genitori come ricompensa in moglie; una manipolazione non d’amore, ma di dominio e sprezzante possesso, di cui la ragazza, risvegliatasi, prende coscienza, energicamente perciò rifiutando di diventare cosa e morboso oggetto di osservazione di Avicente. Non ha la parola Lisario, ma dal fondo del Seicento fa sentire energicamente la sua voce, il suo no all’abuso sessuale e alla coazione sentimentale, attraverso il linguaggio pulsante del corpo, e la consapevolezza liberatrice della scrittura. E’ l’inizio di un’avventurosa storia con inseguimenti, fughe, colpi di scena, e tanti personaggi- artisti, banchieri, notomisti, nobili, popolani- in una Napoli picara e seicentesca, storicamente in bilico tra rivolte sociali ed epidemie. Solo un remoto e romanzesco scenario?

In quest’epoca, più d’ogni altra, l’immagine, più che la sostanza, faceva conto e, sotto l’immagine, plurali, le sostanze” scrivi in Lisario o il piacere infinito delle donne, a proposito del Seicento, fondale storico di questo tuo ultimo romanzo; un giudizio che rappresenta però esattamente anche la contemporaneità. Il romanzo storico, dunque, come scrittura della presenza, qui e ora?

Sì, ogni romanzo che aspiri ad essere opera – e non mera auto rappresentazione dell’autore o cronaca dell’istante – credo tenti di parlare in modo sovratemporale e, per farlo, deve necessariamente calarsi in un’epoca, in un ambiente, nel dettaglio anche infinitesimale del quotidiano per rendere il transeunte simbolo, segno che travalica i secoli: penso sempre che amiamo i grandi romanzi storici, da Banti a Yourcenar, da Consolo al tuo stesso bellissimo lavoro, Maria, proprio perché ragionano dell’uomo, del cuore dell’uomo, come avrebbe detto Flannery ‘O Connor, e, insieme, ci mostrano che il tempo è circolare, che le azioni, i comportamenti, le filosofie e le mode, insomma la natura umana, si ripetono, non mutano. Ho scelto per Lisario il Seicento proprio perché è il secolo in cui si annunciano i disastri del nostro presente: non sono certo la prima, con le dovute differenze poiché il secolo nel mio caso è visto da Sud e da una donna, ma è ovvio, il solco di Manzoni è il tracciato: su Repubblica, credo, Starnone ha detto, in occasione dello Strega, che in fondo i Promessi Sposi sono un romanzo sul 1821. Di questo secolo, che compare e scompare in molti altri miei libri, mi interessa il forte contrasto fra luce e ombra narrato dalla pittura che si riflette nella storia politica e in quella economica, tragiche entrambe. Del resto, è il secolo di Cervantes, della politica cortigiana e vile, così tristemente simile alla nostra; degli abusi di potere; degli imperi globali, come quello spagnolo, che succhiano risorse ai mondi terzi: il Meridione colonia magnifica, giardino e granaio, fonte dell’antico impoverita fino alla rivoluzione. E’ il tempo delle rivolte mancate, come sempre a Napoli, Masaniello celebre in tutta Europa ma manovrato e distrutto da quello stesso popolo che sarà sanfedista nel 1799. È il secolo dove il corpo della donne viene esibito senza veli, erotico e sottomesso, abbondante, poiché la grassezza indica ricchezza e sopravvivenza a epidemie, guerre e carestie, proprio come oggi il corpo delle donne è di continuo sfruttato ma esposto nella sua magrezza, l’anoressia malattia dell’abbondanza e sintomo del potere sottratto alla donna nella società e da lei esercitato sul suo stesso organismo (ho l’unico potere di affamarmi e morire). È il secolo in cui nasce la scienza, ancora mescolata all’alchimia, ma dove lo strapotere dei medici cialtroni preavvisa la trasformazione che avverrà: la scienza nuova religione. La paura della morte raccontata nei memento mori è identica alla nostra ansia di restare sempre giovani, di nascondere la morte negli ospedali. Lisario è, quindi, come i suoi coprotagonisti una donna d’oggi e, insieme, una perfetta rappresentante del secolo delle preziose, delle signore che iniziano a scrivere in Francia e che, non a caso, scrivono favole, come infatti parafrasi della Bella Addormentata è questo romanzo.

Napoli è il privilegiato scenario spaziale della tua scrittura, che continuamente, ostinatamente, in ogni opera indaghi e riscrivi. Vitalissima e corrotta, cosmopolita e misteriosa, in questo romanzo sembra addirittura lei stessa -la città- matrice e alimento creativo di trame e personaggi…Inscindibili il luogo e la parola?

Per quanto mi riguarda è così: la lingua in cui sono nata e i luoghi che mi hanno cresciuta generano lo stile che sviluppo. Non posso pensare a un romanzo del Seicento senza risentire le voci della mia infanzia, Peppe e Concetta Barra a teatro, Eduardo, la Nuova Compagnia di Canto Popolare, il maestro De Simone e la sua Gatta Cenerentola. E poi Ortese e Rea. Dunque la città è sicuramente più di uno sfondo, è la madre e la matrigna delle storie che invento, anche quando queste si ambientano altrove. Poi, la Napoli del Seicento è al suo massimo fulgore: la capitale della musica e dei Conservatori, il polo della pittura internazionale, la patria di Basile e di Marino, vistata da tutti, ricca e insieme poverissima, colta e anche ignorantissima, mitica e realistica. È in questo secolo che costruisce l’immagine che farà dire a Ginsberg di Napoli: è l’unica vera metropoli d’Europa, come New York per gli Stati Uniti. Le immagini che spuntano dal napoletano più antico trascinano con sé secoli di umanità diverse, dal greco degli eubei (per esempio, albicocca in napoletano si dice crisòmmola, il frutto d’oro, crusos mèlos) ai normanni, dagli arabi ai francesi agli spagnoli (abbuscàre sta per prendere mazzate e guadagnare insieme, la nostra anima toledana…).

«Confitto nello spazio e nel tempo come un seme infruttuoso, ascolto il respiro polveroso dei secoli, il nostro e quello di Artemisia, congiunti», scriveva Anna Banti nel romanzo Artemisia, intrecciando un intenso dialogo a distanza con la pittrice caravaggesca Artemisia Gentileschi. Tale dialogo a distanza lega anche te ai personaggi dei tuoi romanzi storici, e, nello specifico, a Lisario, la seicentesca protagonista di questo romanzo?

Una delle ragioni per cui scrivo è nascosta in una raccolta di racconti che mi donò mio padre a tredici anni. Uno era di  Ortese, tratto dai racconti de Il mare non bagna Napoli, e un altro di Banti, Tela e cenere, dove si narrava di una tela di Caravaggio che portava sfortuna a chi la possedeva, secolo dopo secolo. Leggo e rileggo queste due signore della scrittura, le autentiche maestre del Novecento italiano insieme a Morante: capisco alla lettera ciò che dice Banti e, sì, in gran parte lo condivido. Lisario è un personaggio nato per sintonia e sincronia fra tempi lontani e vicini, fra tempi che esisteranno sempre. Credo che ognuno di noi, quando scrive, appartenga a un tempo personale molto specifico, che riconosciamo invecchiando: quel tempo entra in risonanza con alcuni passati che ci ossessionano e questa risonanza ci fa scovare o inventare storie. In fondo, come ogni personaggio, Lisario include alcuni aspetti personali (quando l’ho fatta muta facendole tagliare il gozzo ho compiuto il gesto scritto e solo dopo mi sono resa conto che anche io sono malata di tiroide e che anche a me da bambina è stata fatta un’operazione sanguinosa, adenoidi senza anestesia, come si usava fare negli anni Settanta nella seicentesca Napoli…) e, insieme, è personaggio talmente autonomo e lontanissimo da appartenere agli altri. Del resto, mi è facile entrare in risonanza anche con personaggi di cui non condivido niente, come il lurido Tonno d’Agnolo, pappa del Viceré e Eletto del popolo: eppure, quel marcio, l’ho reso simpatico, perché, ahimè, ne conosco moltissimi di Tonni come lui… Scrivere è questo, credo: aprire un canale e risuonare. E tutta l’umanità risuona tramite noi.

Il romanzo si apre con la rappresentazione di Lisario adolescente, muta e dormiente in una sorta di letto-catafalco nel castello di Baia; a risvegliarla sarà il linguaggio oscuro, e per millenni oscurato, del corpo. Di cui in realtà, non nel Seicento, ma solo dopo la rivoluzione femminista, la donna consapevolmente si riapproprierà. Una metafora, Lisario, per rappresentare e ricomprendere il tempo dell’esclusione e del silenzio, che ha caratterizzato la storia delle madri?

La donna è stata da sempre una bella addormentata, per volontà maschile e collaborazione delle vittime: l’oscuramento del femminile, antichissimo, ha sempre avuto a che fare con il terrore che incute il corpo della donna, la misteriosa capacità di generare, le abilità del femminile totalmente soppresse e svalutate, come purtroppo ancor oggi capita nonostante la rivoluzione femminista, per niente terminata, come si può verificare leggendo i giornali e guardandosi intorno. Mi piace immaginare che gli uomini si stiano vendicando di qualche lunghissimo matriarcato che spero torni presto a esistere, intanto a noi non resta che darci voce: e Lisario prende voce con la scrittura e l’erotismo, due armi, una nascosta e vietata, l’altra esibita e spiata. Credo che Lisario, a differenza di una sua antenata, la Marianna Ucrìa di Maraini, non recuperi su una violenza subita ma sfrontatamente metta in ridicolo le violenze che si cerca di farle subire e, poiché dentro di lei non è capace di subire, vince. Vince ridendo degli uomini: la cosa che gli uomini sopportano meno…

Un inestricabile, avvincente e felicissimo intreccio d’immaginario e storia, finzione e documento, esistenze reali e personaggi d’invenzione, struttura l’articolato respiro narrativo di Lisario o il piacere infinito delle donne: una gestione creativa e una procedura compositiva complessa. Quali i tempi, le modalità, l’angolazione di sguardo?

Le mie scritture sono sempre lunghe, questo romanzo è stato scritto in tre anni ma i materiali che lo compongono, i fondali, i personaggi sono più antichi. Funziono sempre per immagini che poi vado a verificare sui documenti: penso a Yourcenar che, anni dopo l’invenzione de L’opera al nero, ritrova una tomba con un nome che aveva solo immaginato. Lo capisco perché quasi sempre parto da un sogno notturno, da una congerie di immagini che, quando decido, vado a verificare trovando che spesso non mi sono discostata troppo dalla realtà storica. Fra le fonti della Napoli seicentesca, poi, abito da anni anche a causa del mio lavoro giornalistico per Il Mattino che, pian piano, mi ha fatto accumulare topografie, fatti, nomi, dati che cerco di dimenticare e poi si trasformano in materia man mano che scrivo. Molto del lavoro sta nel creare questo teatro di lingue e di scene verosimili, in parte verificabili ed esistenti, in parte mai nate ma che avrebbero potuto. Di questo romanzo posso dire che Lisario e le sue lettere sono l’ultima cosa creata, poiché all’inizio Avicente Iguelmano, il medico cialtrone, era il narratore. Poi Lisario ha iniziato a pestare i piedi e a dire: ‘mbè? E a me non mi vuoi far parlare? E così ho dovuto scrivere le lettere.

Da più di vent’anni insegni agli allievi della tua scuola di scrittura, Lalineascritta, a costruire storie, gestire trame, connotare i personaggi. Costruzione razionale o passione creativa, per te la scrittura?

Entrambe le cose visceralmente intrecciate: impossibile scrivere senza un’ossessione e una passione che ti divorino letteralmente ma altrettanto impossibile finire a perfezione le cose senza una precisione di lima che costringa la materia a essere esatta, contenuta, funzionale. Un lavoro che s’impara con gli anni: aveva ragione Cervantes quando diceva che i romanzi si scrivono da vecchi. Perché si è più vissuto ma anche perché si è tanto lavorato…

Il tuo prossimo romanzo: già in cantiere?

Sì, sta nascendo, un’altra sfida perché sarà ambientato in un periodo privo quasi completamente di fonti. Presto, però, per dire altro…

*

Antonella Cilento, Lisario o il piacere infinito delle donne, Mondadori, 2014, pp. 297 euro 17,50.

*

 il sito ufficiale di Antonella Cilento

PUOI SEGUIRE LA SIL SU: FacebooktwitteryoutubeFacebooktwitteryoutube
PASSAPAROLA:
FacebooktwitterpinterestlinkedinmailFacebooktwitterpinterestlinkedinmail
Categorie
One Comment
0 Pings & Trackbacks

Lascia un commento