A luglio del 2014 il tribunale dell’Aja ha emesso una sentenza storica: ha riconosciuto l’Olanda «civilmente responsabile» della morte di circa trecento uomini e ragazzi musulmani, fra gli oltre diecimila totali uccisi a Srebrenica nel luglio 1995.
Una sentenza certamente importante, ma non abbastanza per il gruppo che raccoglie le madri (e vedove) di Srebrenica, circa seimila donne, che anni fa intentarono causa contro lo stato olandese. I militari olandesi, all’epoca caschi blu dell’Onu, avrebbero dovuto difendere tutta la “zona protetta” di Srebrenica – sostengono le donne – e non solo la base di Potocari dove erano stanziate le truppe e dove, appunto, provarono a rifugiarsi in trecento. Le madri di Srebrenica non si arrendono, continuano a srotolare striscioni con le immagini degli uomini che sono stati riconosciuti, mentre ancora ne mancano migliaia all’appello. Le donne insistono, anche per non far cadere nell’oblio quello che è accaduto sotto gli occhi indifferenti di tutto l’Occidente.
Pochi giorni prima che arrivasse la notizia di questa discussa sentenza, in Italia arrivava fra i finalisti al Premio Strega un ottimo romanzo [già finalista al Premio Calvino] dalla scrittura forse ancora un po’ acerba, ma dalla trama forte e necessaria: Marco Magini, scrittore esordiente, in Come fossi solo si è infatti preso la briga di raccontare proprio quella storia.
Magini ha ricostruito l’episodio più drammatico, per certi aspetti oscuro, a cui si è arrivati durante l’ultima guerra di Jugoslavia, cosa si è cercato di fare per individuare le responsabilità di quel massacro e ha dato voce ai sentimenti di chi ha combattuto una guerra voluta da altri.
Non ancora trentenne, all’epoca dei fatti aveva dieci anni, Magini è un’economista che si occupa di sviluppo sostenibile con la passione per la scrittura e fra le prime cose che colpiscono leggendolo è proprio questa estraneità e distanza che gli permette, come ha scritto Maria Rosa Cutrufelli nel candidarlo allo Strega, di raccontare “la storia di uno dei drammi più recenti del nostro tempo, con la voglia fortissima di raccontare la nostra epoca, e di raccontarla senza fermarsi ai confini nazionali”. Nel leggere questo romanzo si registra tutta la lontananza e l’afasia dal provincialismo e l’autoreferenzialità dei titoli premiati poi allo Strega: fra la lettura di Piccolo – a tratti fastidioso e irritante – e di Pecoraro – a tratti noioso e prolisso – il ritmo serrato e coinvolgente di Magini incalza alla riflessione senza nulla togliere alla freschezza della narrativa e alla suspance da romanzo di guerra.
Sono tre le voci narranti, tre i punti di vista diversi per restituire la complessità di quella vicenda.
Dirk è il casco blu inviato in Bosnia, Drazen è il soldato serbocroato che va in guerra nella sua stessa terra, Romeo il magistrato della corte internazionale che ad un certo punto si interroga profondamente:
“Si arriverà forse un giorno a arrestare i veri carnefici, i pianificatori della strage e i loro zelanti esecutori. Drazen Erdemovic non appartiene a nessuna di queste due categorie. Allora perché ho deciso di condannarlo? Ho e abbiamo condannato un uomo al carcere per una colpa non sua, per aver deciso di agire come avremmo agito anche noi se ci fossimo trovati al suo posto. Chi di noi avrebbe mai rischiato la vita per mettere in discussione gli ordini ricevuti dall’autorità, per quanto insensati potessero essere? Non occuperà le prime pagine dei giornali, non attirerà l’attenzione della comunità internazionale, ma con questa sentenza abbiamo mandato un messaggio forte e inequivocabile a chiunque si trovasse lì quel giorno. A Srebrenica l’unico modo per restare innocenti era morire“.
E, infatti, a morire sono stati migliaia di innocenti.
Magini, perché hai scelto di raccontare Srebrenica?
La spinta è stata nello scoprire per caso, una sera a cena, la vicenda del soldato serbo-croatoDrazen Erdemovic [unico reo confesso condannato per la strage, n.d.r.], raccontatami da un’amica nel periodo nel quale stavo finendo la tesi di laurea. La storia mi è apparsa da subito una metafora potente delle contraddizioni dell’“essere umano” e ho da subito sentito il bisogno di narrarla. All’epoca dei fatti Erdemovic era un mio coetaneo e una domanda ha continuato a frullarmi in testa: “Come avrei agito io al suo posto?”. Raccontare Srebrenica è stata poi una conseguenza della scelta di raccontare la sua storia.
Come ti sei documentato? Non sono personaggi che si improvvisano con la pura fantasia…
Ho passato quattro anni a lavorare sul manoscritto, proprio per riuscire a documentarmi al meglio ed essere così il più fedele possibile ai fatti. Ho iniziato leggendo tutto quello che trovassi sia sui processi dell’Aja per finire con un viaggio in macchina in Bosnia per visitare i luoghi della tragedia. Ho cercato così di rimanere il più aderente possibile alla realtà, per rispetto verso una vicenda così tragica. Il personaggio di Drazen è, come dicevo, basato su una storia vera e sul relativo processo, mentre i personaggi di Romeo Gonzalez e di Dirk sono personaggi di finzione ma sono comunque il risultato della somma di diversi personaggi reali.
Sembra che neanche tribunali super partes come quelli dell’Aja riescano nel loro obiettivo, più forti sembrano essere gli interessi personali che un’ideale della giustizia come bene comune: ti sei posto il problema di dare un messaggio con questo libro o vuoi che ognuno si faccia la propria opinione?
Il mio obbiettivo nel romanzo è fornire al lettore tutti gli strumenti necessari a farsi una propria opinione su quanto accaduto. Per quanto sia cosciente del fatto che si tratti di un qualcosa impossibile da raggiungere fino in fondo, ho cercato come autore di rimanere il più neutro possibile riguardo alla vicenda sia attraverso l’assenza di giudizi espliciti che attraverso l’utilizzo di una lingua che ho cercato di mantenere la più asciutta possibile. Per quanto riguarda la Corte Penale Internazionale, il messaggio che ho cercato di trasmettere è stato soprattutto in rapporto a tutti i grandi eventi storici che ritengo possano essere decisi anche da piccole questioni private. L’esistenza stessa della Corte è invece un grande traguardo, dato che afferma la necessità di punire determinati crimini, ovunque essi siano commessi, perché vanno a intaccare l’essenza stessa dell’essere umano.
Tre le voci narranti, tutte maschili. Non hai mai pensato a inserire uno sguardo femminile, considerato il prezzo pagato dalle donne in quella strage?
Nella prima stesura avevo scelto come terza voce quella della figlia del generale Mladic, attraverso un immaginario diario personale. In questo modo cercavo di affrontare contemporaneamente più temi riguardanti le guerre balcaniche. In un secondo momento ho invece deciso di concentrarmi maggiormente su Srebrenica e per questo ho cercato la “nostra voce”, quella dell’“Occidente”, attraverso un casco blu che si trova nell’enclave in quei giorni senza però riuscire a evitare il massacro. In questo senso ho trovato una voce maschile più adatta a rappresentare una realtà come quella militare.
È il tuo romanzo d’esordio, che effetto ti ha fatto essere stato nominato per lo Strega?
È stato un’annata incredibile. Grazie al Premio Calvino, che consiglio a qualsiasi autore esordiente con un romanzo nel cassetto, sono passato a distanza di pochi mesi da non avere un editore a essere nominato per il più importante premio letterario italiano. Ogni passo è stata una grandissima emozione, non posso che dirmi felice.
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Marco Magini, Come fossi solo, Giunti, pp. 224, euro 14.
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