Il gioco dell'epica

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Un’epica

di Paola Meneganti

Settima, si chiamava. La settima figlia. Era l’ultimo scorcio dell’Ottocento: si innamorò di Biagio, a Firenze. La montagna piemontese (lui era nato a Borgo Sesia, e aveva lavorato al traforo del Sempione) e le dolci colline di Settignano che si incontravano. Settima faceva la trecciaiola. Era diventata una specialista: doveva fare otto metri di treccia di paglia di Firenze, a sei o otto fili.
I loro volti, severi e consapevoli, mi fanno compagnia, incorniciati, da anni, da quando la mia nonna se ne è andata: erano i suoi genitori.
Settima era figlia di un conte “scontato”, che si era mangiato titolo e patrimonio con le donne, l’alcool e il gioco. Incontrò Biagio a Firenze, dove questi era per lavoro, e si sposarono. Ebbero cinque figli, tre maschi e due femmine: tutti alti e belli, come in un romanzo. Settima fu comunista, come i figli e le figlie. Non so che cosa la convinse lì: forse la rabbia di una sorte subita senza possibilità di riscatto che non fossero il duro lavoro e la fatica, forse l’amore per i figli, irresistibilmente catturati dallo spirito del tempo. Sicuramente, una sua scelta libera.
Una volta, erano gli anni bui del fascismo violento e vincente, fu organizzato un evento, diremmo oggi, da parte del Soccorso Rosso: un ballo, che in realtà sarebbe servito a raccogliere fondi per i compagni espatriati, per quelli in galera e per le famiglie in difficoltà. Ad un certo punto della serata, si sparse la voce dell’arrivo delle guardie regie e dei fascisti. I figli corsero da Settima: “mamma, ci sarà pericolo, dovete andare via” (non era il “voi” fascista, era il “voi” toscano, che si usava anche nelle famiglie). Settima cavò, calma, una pistola dal corsetto: “io sono pronta”.

Settima è la mia bisnonna Poli, maritata Lorenzini. Dei figli maschi, uno, Ugo, morì in Spagna, combattendo per la Repubblica; Urbano, dopo la Spagna, visse l’esilio in Francia e in URSS e tornò dopo l’8 settembre; il più giovane, Fosco, fece la Resistenza in Piemonte e, nel dopoguerra, fu a lungo vicesindaco comunista di Ivrea. Delle due figlie, Alina perse il marito, fucilato per rappresaglia dai tedeschi; la più piccola, Elisa detta Linda, nata nel 1905, comunista, donna forte e determinata, aspra, dolce e intelligente, era la mia nonna paterna, la nonna che mi ha cresciuta

*

Breve viaggio

di Rossella Caleca

Ci sono pietre a mucchi, ai bordi della strada; sull’asfalto detriti e frammenti su cui l’autobus pesante sobbalza sollevando polvere. Dal sobborgo ai quartieri del centro le case di pietra cedono ai palazzi, i cespugli secchi alle macchie di eucalipti; ma ovunque impalcature, gru, betoniere rotolanti. Rumori opachi, rumori stridenti, costruzioni incessanti.
Samira tira un po’ giù lo scialle leggero che le copre i capelli. Sono i giorni di fine estate, popolati da venti caldi e tristi. L’autobus si va affollando di studenti, sta per finire la prima settimana di scuola, qualcuno parla già della vacanza di domani. Per Samira il giorno sacro è oggi. Li osserva, li ascolta salutarsi, ridere chiacchierare nella loro lingua, i capelli delle ragazze danzano, evadono dai fermagli, brillano sotto i raggi opachi filtrati dai vetri. Si fa strada una voce trillante, una ragazza ciarla e ridacchia con l’amica.
Una voce trillante. Hanno detto: sarai come muro, il tuo cuore come una roccia. Ma il cuore di Samira non è una cosa dura, è solo una cosa addormentata, e nel sonno si è già insinuato un ricordo.
Yael parlava sempre con voce troppo alta, il quartiere risuonava delle sue risate. Abitava una bella casa di fronte al loro cortile.
Aveva capelli corti e ricci che esplodevano in tutte le direzioni, suo fratello Abraham si divertiva a tirarli e lasciarli andare come fossero di gomma e derideva i loro giochi di bambine.
Quello che loro preferivano era giocare alle signore; sedute sullo scalino della fontana, servivano il tè in minuscole tazzine che erano l’orgoglio di Yael, miniature di porcellana in tutto simili alle grandi; c’era vero zucchero nella zuccheriera, e vero tè veniva versato con sussiego dalla piccola teiera. Lei non aveva mai avuto niente di così bello, giocarci era un’estasiata felicità.
I loro svaghi cessarono con l’autunno, dopo la fine delle scuole primarie. Yael le aveva parlato dei suoi progetti. La scuola migliore al centro della città. L’università. Un futuro illustre. Samira aveva taciuto. La sua famiglia non avrebbe speso per lei il poco che aveva. Yael avrebbe lavorato, viaggiato, visitato luoghi famosi. Sarebbe mai uscita, lei, dal quartiere? Avrebbe mai visto qualcosa oltre la città?
Quella sera aveva detto alla mamma con voce esitante: “Yael avrà un futuro illustre.”
La mamma china sul focolare sembrava non sentire.
“Io potrei sposare uno straniero?”
La mamma era riuscita a picchiarla senza voltarsi mandandola con un manrovescio a sbattere contro il muro.
Stagioni e vite sono trascorse. Ora in casa sono molti di più, ospitano la famiglia del cugino Hamid. Il fratello di Hamid è diventato un martire di Dio, così la loro casa è stata rasa al suolo, il padre imprigionato, Hamid stesso deve nascondersi.
Ma trova il modo di visitare i suoi. E le ha insegnato tutto.
Ci sono due punti buoni in tutto il percorso, quando l’autobus è affollato solo da loro: uno all’incrocio poco prima del museo; l’altro, lo vedrai tre fermate dopo, all’inizio del viale che conduce al quartiere nuovo. Non puoi sbagliare.”
Hamid le ha spiegato tutto. “Non avrai paura. Sarai salda come roccia, se Dio vuole.”
Dal finestrino Samira fissa le montagne blu polvere all’orizzonte che appaiono a tratti, dietro le schiere dei palazzi. Quando sarà il momento guarderà laggiù. Sarà l’ultima cosa che vedrà e non saprà mai cosa c’è oltre.
Non ha caldo nonostante le vesti abbondanti. Non ha fastidio nonostante il peso intorno alla vita.
“Guarda, così: comprendi? Un solo movimento, un solo strappo secco: sarà un attimo”
Si avvicina l’incrocio, ragazzi salgono e scendono. Ragazzi come Yael che è morta un pomeriggio di inizio estate, saltata in aria mentre tornava a casa dalla nuova scuola. Tre anni fa.
“Sarà il tuo giorno sacro. Onorerai la tua famiglia, onorerai il tuo popolo. Vivrai per sempre nell’eternità di Dio.”
L’incrocio è passato, Samira se ne è accorta troppo tardi. Come ha potuto distrarsi? Si morde le labbra, si concentra. Una fermata. Loro salgono e scendono, passano e ridono. L’autobus arranca nel traffico. Seconda fermata, scorrono volti e voci. L’ultima occasione sarà tra poco. L’autobus accelera su un tratto di strada libero, appare il viale alberato, i freni stridono. Terza fermata, ora.
Le porte si aprono. Corpi scendono, salgono. Le porte si richiudono.
L’autobus riparte.Samira non si è mossa. Non sa perché, non capisce. Non è confusione. Non è paura. È ancora in tempo, può ancora farlo, deve farlo subito, un solo movimento, un attimo…
Emergendo dalla nebbia in cui inspiegabilmente è caduta, Samira si accorge dopo parecchi minuti di essere arrivata al capolinea. Intorno a lei è il vuoto, davanti a lei uno slargo tra scheletri di edifici.
Scende, si siede su una pietra giacente nella polvere, tra i rovi.
Non tornerà casa. Guarda le sue mani di donna senza onore. Guarda i dorsi, i palmi, coi delicati disegni di henné. Le sembra di vedere le sue mani danzare. Le sembra di vederle rimpicciolire, moltiplicare: un intreccio di mani bambine che versano il tè.

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