Si intitola Poetica del basso continuo ed è l’ultimo lavoro di Ida Travi che prosegue il discorso su alcuni temi rintracciabili tanto nei suoi versi (1) quanto nel suo Aspetto orale della poesia (Anterem, 2000), sapiente figurazione del rapporto tra oralità e scrittura che molto ha circolato sia tra gli addetti ai lavori che nei confronti in presenza.
“La lingua materna è condannata perché è concreta, non astrae. Perché è dinamica, narra per eventi, dice e quel che dice lascia subito scomparire”. Così Travi chiosava già nel 2000 rappresentando un pensiero più profondo che, lungi dall’essere un mero contributo o l’apertura di un conflitto con il canone e la tradizione poetica, tagliava radicalmente con l’aridità della seconda lingua che è quella della critica letteraria e poetica, e finanche filosofica, del neutro. Quella lingua è seconda perché secondaria è la sua importanza ed efficacia dinanzi alla lingua imparata sul nascere, di cui abbiamo fatto esperienza tutte e tutti e attraverso cui nominiamo il mondo. Da questo punto di non ritorno, che prende avvio all’interno del femminismo della differenza sessuale italiano (2), il legame intravisto tra oralità e lingua materna ha segnato un esito da interrogare con cura. Almeno da chi ha a che fare con le parole, con la scrittura e cerca di dare un senso anche politico a ciò che fa. Se dunque nell’Aspetto orale della poesia a passare in rassegna sono stati Platone, Zambrano, Arendt, Kristeva e altre/i, tenendo saldi i punti di guadagno ineludibili e congedandosi da una trattazione saggistico-lineare astratta spesso vuota e fraintendibile, in Poetica del basso continuo Ida Travi conduce a un orientamento ancora una volta cruciale. Intanto perché l’espressione “basso continuo”, imparentata solo apparentemente con la musica, è idea misteriosa, densa e “certamente zoppa”; ed è proprio nel passo sghembo, imperfetto che richiama la forma del ditirambo e delle prime mosse che la poesia ha intrapreso per essere messa in parole, che poggia la scommessa: “in basso, nel pericolo e nella fragilità comincia la rivoluzione del linguaggio poetico. Con quella lingua come appoggio, penso, si può parlare e procedere con minor danno. È il linguaggio del battito cardiaco, con qualche inciampo, prima del discorso. È il linguaggio più vicino all’agire. Lì succede qualcosa… Si mangia, si beve, si parla di sostentamento. C’è qualcosa di vivente, un battito a cui si attiene, nel suo scorrere, anche il tempo”. Il battito cardiaco istruisce non una norma anatomica bensì un territorio che è simbolico a cui si accede con un passo altrettanto ordinatore, che trova in quel sottofondo sghembo il continuum materiale e simbolico, cioè di corpo e parola, che si ostina a procedere. Che non ha cioè necessità di nessun accompagnamento e di nessuna autorizzazione, infatti “è il sotto che stabilisce il sopra. C’è qualcosa di così ostinato anche nel respiro di chi è disteso, e dorme: forse sta fronteggiando un dolore. Basso, ostinato è il carattere di chi fronteggia il dolore, basso e continuo è il pensiero di chi abita la parola come fosse la sua casa, la sua terra”.
Composto da brevi saggi inediti, interviste e riflessioni, Poetica del basso continuo precisa e radicalizza così alcuni tratti salienti in capo ai tre temi presenti nel sottotitolo al volumetto: la scrittura, la voce e le immagini. Interessante a questo proposito è il passaggio in cui Travi descrive il processo stesso della scrittura e del pensiero di seconda mano, chiarendo il significato di due operazioni che spesso si sovrappongono: citare e recitare. Lo fa servendosi di alcuni ritratti presenti in una stanza in cui si entra a tentoni per via della poca illuminazione. Nel tema della stanza e dei ritratti incorniciati non compare la fotografia della madre di Mary raccontata da Virginia Woolf in A Room of one’s own, si agitano invece fantasmi che una bambina, a testa bassa ma con lo sguardo rivolto verso l’alto, avverte come una folla. Questi “ritratti” che mettono in cornice un patriarcato andato in malora e ancora credono di impartire lezioni – con l’arroganza di chi “scrive nella supponenza della mano, nella decadenza della sua podraga” come nello zio Vanja di Cechov – sono in realtà “spettri. Dallo spaventoso color seppia. In Russia, in Norvegia, in Danimarca. Spettri dappertutto. E vengono a cantarti nell’orecchio, non smettono mai. Tu resta impassibile come un santo, una santa, e comincia con una rinuncia: non ripartire dallo splendore del compiuto. Fallo questo sacrificio. Cerca piuttosto là nella nebbia che calò sul poeta prima di sollevarsi in opera”. Citare e recitare sono dunque alternative apparenti di un unico e grande sistema spartitorio tra fantasmi.
Per comprendere ciò di cui parla Ida Travi sarebbe sufficiente convocare le categorie di theatron e drama, per rendersi cioè conto cosa significhi ripetere il già detto e cosa sia invece l’evento – che a ben guardare è espresso anche nella concretezza della lingua materna che apre all’agire. Del resto, per la stessa strada si può incontrare la tangenza tra epica e poesia – senza confondere l’una con l’altra – e ancora epica e tragedia, dove quest’ultima è evidentemente precedente al citare e recitare bensì sgorga nel senso che il drama porta con sé.
Ancora una volta è nella ricerca stretta tra oralità e scrittura in cui vi è un’assimilazione, un’assonanza tra la lingua della madre e il canto poetico, che si fa esperienza di quel passaggio. Nella scrittura si perde qualcosa e si acquista qualcos’altro. Tuttavia, all’ossessione della spiegazione, Ida Travi risponde con l’ostinazione della creatura piccola che simile a un viandante abita il mondo. Questo basso continuo allora dice di “una posizione dello spirito per cui più la testa si abbassa, più s’innalza nel cielo, fuori”. È una posizione del corpo che avverte un’allerta, colma di preghiera e senza dio, a indicare la parola come prima forma della libertà. È anche qui un’orazione che intende l’unione di oralità e relazione e che non parte da alcunché di ontologico ma tutto di materiale: “non c’è prima la nascita e poi la relazione: nasciamo già in relazione col mistero dell’altro”.
La poetica del basso continuo è anche quella in cui si muovono i personaggi delle poesie di Ida Travi. Basterebbe leggere le sue ultime tre sillogi (3) per capire come il basso continuo è il sottofondo poetico dell’inizio di qualcosa di inedito, vulnerabile e non ripetibile. Travi immagina il popolo dei Tolki, creature con tratti umani e parlêtre – su quest’ultimo punto il riferimento è al neologismo di Lacan – che ricostruiscono una comunità dopo una catastrofe marchiati appunto dal linguaggio. Di questo disastro, che non è da confondere con lo spaesamento dell’io novecentesco, non sappiamo nulla. Di cosa sia accaduto prima non ci giunge notizia dalla poeta, sappiamo però ciò che è più importante ovvero che esiste un dopo la disintegrazione. In questo post non vi sono automi desideranti e neppure donne e uomini che vogliono darci in pasto un qualche fallimento espulsivo e suicidario. Ci sono invece ex-lavoratori, ex-studenti, ex di qualcosa che prima era e da cui si è già preso congedo. La ricostruzione di questa comunità è un nuovo inizio in cui al lavoro è esattamente la lingua materna e bambina, il senso politico di quella lingua materna che è concreta e che nomina il mondo per ciò che è: questa falce, questa culla, questo fiore, questo pettine, quest’albero eccetera. Non c’è astrazione ma la voce – che è poi quella poetica della stessa Travi che da sempre non legge i suoi testi pubblicamente ma li dice – che mette in immagini le cose. Il tema della voce in immagini è fondamentale. Invece dei grandi filosofi che sprecano molte parole e i poeti che insistono nel culto di loro stessi, Ida Travi elegge a insegnamenti imprevisti proprio le immagini cinematografiche; là dove quella relazione che da sempre le è stata a cuore si invera proprio davanti ai suoi occhi di ragazzina. I filosofi infatti a ben guardare giocano a fare gli intellettuali in stile zio Vanja dei vari esseri-per-la-morte, i poeti spesso non guardano ciò che è. Così assistiamo in Poetica del basso continuo a Godard, Truffaut, Bresson. Assistiamo cioè a un lavoro di sottrazione dei belletti poetici per riferirsi piuttosto a una parola che sia voce e immagine poetica insieme. E che assuma il rapporto tra poesia e lingua materna. Per una poetica del basso continuo, per una rivoluzione del linguaggio poetico, simbolica e incarnata senza spargimento di sangue, e che non accade una volta per tutte.
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(1) Per una bibliografia completa si può visitare il sito ufficiale di Ida Travi.
(2) Come è noto, il pensiero della differenza sessuale e la comunità filosofica di Diotima hanno lavorato sulla lingua materna. Tra gli interventi qui rimando a Ida Travi, Il gioco pesante di tutta la vita, in Chiara Zamboni (a cura di), Il cuore sacro della lingua, Il poligrafo, Padova 2006
(3) Tà. Poesia dello spiraglio e della neve (2011), Il mio nome è Inna. Scene dal casolare rosso (2013); Katrin. Saluti dalla casa di nessuno (2014). Tutte e tre le sillogi sono pubblicate da Moretti&Vitali
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Ida Travi, Poetica del basso continuo. La scrittura, la voce, le immagini, Moretti&Vitali 2015, pp. 125, euro 12.
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