FILM/ Storia di un'anima persa

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Lo-chiamavano-Jeeg-Robot

 

 

Si chiude con una citazione sbagliata il film di Gabriele Mainetti Lo chiamavano Jeeg Robot: la voce di un cronista sullo sfondo di una Roma che rimanda a Gotham City, dichiara accorata che a differenza di quello che credono i ben pensanti, abbiamo bisogno di eroi. Peccato che a scrivere “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi” non fu un ben pensante qualunque, nel senso di uno che pensa bene, ma Bertolt Brecht. Peccato anche che a pronunciarla fosse Galileo Galilei, per difendersi con l’allievo Andrea, che lo accusa per avere abiurato.

Detto il peccato, non si può che associarsi alla celebrazione di Lo chiamavano Jeeg Robot. La pellicola, di nuovo nelle sale, ha fatto incetta di David di Donatello: Gabriele Mainetti come migliore regista esordiente, Claudio Santamaria e Ilenia Pastorelli per migliore attore e migliore attrice, Luca Marinelli e Antonia Truppo come migliore attore e migliore attrice non protagonisti, e molti altri premi.

Un buon film, insomma, nonostante, specie nella prima parte, venga voglia di coprirsi gli occhi per le scene di violenza. Eppure, avvince la storia del protagonista Enzo Ceccotti, improbabile cavaliere nero, che si nutre, desiderio estremamente condivisibile, solo di Danette alla vaniglia. Come mai il film appassiona tanto? Sarà l’essere vittime e carnefici (passivi) della barbarie della post-modernità, come scrive Goffredo Fofi a proposito di The hateful eight, l’ultimo film di Quentin Tarantino? O sarà l’appartenenza a una generazione cresciuta a cartoni animati, genere Ken il Guerriero e L’Uomo Tigre, dove, in scenari apocalittici, l’unica redenzione possibile era quella della violenza, a fin di bene?

Il film si apre con la lunga fuga dalla polizia del protagonista. Senza vie d’uscite possibili, lo ritroviamo immerso nel Tevere, dove, a causa di un misterioso liquido radioattivo, disciolto nelle acque dell’ex-biondo fiume capitolino, acquisisce i suoi super poteri. Di modi nobili per usare la sua forza, però, Ceccotti non ne conosce e di persone da aiutare non ne ha: “Io non so’ amico de nessuno” ripete nel film e “‘ A ggente me fa schifo”, ribadisce. Così scassina un bancomat a mani nude, poi, assalta un furgone porta valori. Del resto, Enzo è il ritratto veritiero di un’anima persa. Certo, si potrebbe dire membro del sotto-proletariato, della suburra contemporanea (il film è ambientato a Tor Bella Monaca), cane sciolto dedito a piccoli furti. Tutte queste macro categorie, peraltro adeguatissime, ci allontanerebbero, però, dall’esistenza unica di Enzo Ceccotti, dal fatto che il sottoproletariato, i cani sciolti, la suburra sono costituiti da singoli individui, a volte con madri, figli e fratelli al seguito. Definirlo un’anima persa ci permette, così, di vederlo come “uno” e poi ciò che si perde, a volte si ritrova. Per ritrovare la strada, Ceccotti ha dalla sua i super poteri, ed Alessia, di cui immancabilmente e molto comprensibilmente si innamora, che gli insegnerà la missione del vero eroe.

Figlia di un ricettatore conoscente di Ceccotti, la ragazza dai seni perfetti, come si conviene ad ogni giovane eroina, ha presumibilmente un ritardo mentale post-traumatico, ma nel suo cuore sa benissimo cosa deve fare un eroe. Glielo insegnano i cartoni animati che guarda ossessivamente dal suo DVD portatile. Con la meraviglia inarrivabile dell’innocenza, Alessia illustra il senso della quête eroica al protagonista, che fin dal primo momento riconosce come Hiroshi Shiba (nome di Jeeg Robot), chiamandolo, però, confidenzialmente: «Ero’».

Lo chiamavano Jeeg Robot è una storia di eroi di tutto rispetto e come tale prevede la presenza immancabile di un anti-eroe, ossessionato da un desiderio di supremazia fine a se stessa, di visibilità, dall’esperienza fallita a Buona Domenica. Indimenticabile la scena in cui incita la sua banda a un furto, cantando la Berté.

Il film piace, allora, perché Jeeg vince, sconfigge il male; la stessa ragione per cui si ama Django, di Tarantino. Vince a suon di botte, sì, perché il male non ci va mai alla leggera. E le bombe che tormentano Roma sono della camorra, niente terroristi islamici. Si ammira, poi, un realismo tutto italiano nella narrazione dello spaccio di droga, che i film americani se lo sognano.

Forse siamo una generazione passiva, cresciuta credendo che la salvezza arrivi solo dai cyborg, come Jeeg Robot, o da ibridi mezzo uomini-mezzo felini, forse per questo mangiamo anche la polvere. Allora, lasciateci sognare.

Lo chiamavano Jeeg Robot. Regia: Gabriele Mainetti. Sceneggiatura: Menotti, Nicola Guaglianone.Musiche: Gabriele Mainetti, Michele Braga. Fotografia: Michele D’Attanasio.Montaggio: Andrea Maguolo, Federico Conforti.Scenografia: Massimiliano Sturiale. Costumi: Mary Montalto. Soggetto: Nicola Guaglione. Cast: Claudio Santamaria, Luca Marinelli, Ilenia Pastorali, Antonia Truppo. Anno: 2015; nazione: Italia; distribuzione: Lucky Red; durata: 112 min;  Genere: fantascientifico.

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