In un testo del ’92, dee fuori dal tempio, Silvia Vegetti Finzi invitava le donne ad avere il coraggio di pensare la maternità come creatività non solo di corpi, “non necessariamente di bambini”, ma produttrice di simboli, di progetti e nuovi legami sociali. Ma non solo. Le invitava ad un riconoscimento del debito nei confronti di Baubò, la figura mitica che fa ridere Demetra disperata per la perdita della figlia, che col suo gesto – alzare la veste al di sopra dell’ombelico – ha avuto il coraggio di rappresentare il godimento non legato alla procreazione. Un invito a non rimuovere l’eros, la sensualità, censurati da tutti i paradigmi della maternità, e con essi lo scherzo, il gioco. Luisa Muraro aveva da poco scritto L’ordine simbolico della madre, un tentativo di trasformare in agire politico il riconoscimento della potenza creativa materna sostituendo l’attaccamento a lei, vissuto come una ferita, con l’imparare ad amarla. Ad imparare il mondo attraverso la lingua materna, colorata e giocosa come l’infanzia. Una scommessa ancora aperta.
La scrittura – quella poetica, capace di tradurre in parole saporite come frutti maturi; mobili, leggere e sensibili come il ritmo della danza – è una delle mediazioni possibili per esercitarsi in questo tentativo di avvicinamento alla madre, alla sua potenza, senza restarne imbrigliate.
Un tentativo di scrittura, magistralmente rappresentato dal gesto dei figli piccoli di rifugiarsi sotto la gonna della madre, sotto il suo potere salvifico; di dire del legame indissolubile che lega la figlia alla madre, era stato già messo in atto nel 1930, durante la rivoluzione messicana, da Nellie Campobello, alias Francisca Luna Moya (1900 –1986), una donna dalla vita tumultuosa, morta in circostanze misteriose, che aveva fatto della danza una ragione di vita, creando balletti moderni di tema rivoluzionario: – Adesso so quanto grande fosse il potere della sua gonna e il potere della sua mani … Poteva piovere, tuonare, potevano scagliarsi lampi, soffiare uragani noi ce ne stavamo lì”. Una madre vista come un’artista creatrice di “corpi pensanti e pensieri corporei” (Veggetti Finzi).
Nell’introduzione al suo Mani di madre (testo originale a fronte) Giovanna Minardi, che ne è la traduttrice, riporta un passo di Ombra reunida, un altro testo di Campobello: “Amante della verità e della giustizia […] mi vidi nella necessità di scrivere. Sapevo che l’ambiente in cui vivevo non era propizio al mio desiderio … cercai la forma di poter dire, ma per far ciò avevo bisogno di una voce, e andai verso di lei. Era l’unica che poteva dare tono, l’unica autorizzata: era la voce della mia infanzia”.
La lingua che narra è infatti della stessa Nellie bambina che era stata testimone dell’esperienza della guerra nel Nord del Messico. Uno stile narrativo, annota la traduttrice, che si svolge per associazione d’immagini: “il ritmo del latte con patata dolce e del caffe con semitas venne spezzato da una notizia: non avevamo più papà” – e in maniera multipercettiva, come sono i ricordi dell’infanzia: ” La risata, le tortillas di farina, il caffè senza latte, le cadute e le ferite alla testa, i morti, le scariche delle carabine, gli uomini che passavano correndo a cavallo, le bandiere sudice, le notti senza stelle”. Ricordi affidati al tatto, all’odore, al colore e al calore; e per frammenti: viso, profumo, corpo, gonna, capelli, occhi e soprattutto mani. Mani che preparano il cibo, ricamano, cuciono con la macchina da cucire, “una bambina di ferro tra le sue mani” il cui “canto ferroso”, creativo e riparativo, contrasta con la macchina da guerra disseminatrice di morte: – Che era il povero rumore di quella macchina difronte alle voci dei cannoni? Povera macchina che ci regalava orli mentre il cannone ci regalava morti, molti morti. Mani tra le quali può capitare di vedere apparire Dio; che “guidano la grafia di chi scrive”, o meglio la sua macchina da scrivere, terzo strumento che acquista così valore simbolico, annota Minardi: “La progenitrice non è mera riproduttrice della specie, ma una creatura produttrice di attività artistiche e ludiche”.
Mani di madre è un’invocazione, “quasi un monologo”, in 17 frammenti, alla madre – Il tuo viso di luce, madre, /desta e piange, oggi come nel passato/ quando io t’invoco –. Una madre associata alla natura: – Slanciata come i fiori della sierra quando danzano cullati dal vento. /Il suo profumo si aspira vicino ai corbezzoli vergini, lì dove la luce si apre del tutto. /La sua forma si percepisce al calar del sol sulle falde della montagna. /era come i fiori di mais non recisi e nel medesimo istante in cui li bacia il Sole. […] Una donna davanti alla quale tutto si piega al suo passare.
La storia, scrive ancora Minardi, ha un doppio centro: la figlia e la madre. Così facendo Campobello crea una genealogia tra madre e figlia e tra presente e passato per cui il libro è allo stesso tempo autobiografia (della prima) e biografia (della seconda) e ciò che viene narrato assume significati diversi in relazione a chi narra. Da qui la creazione di una voce narrante fluida, che passa da un soggetto all’altro, da un tempo all’altro, in modo frammentario e intermittente. La bambina infatti, in quanto narratrice inesperta, produce una scrittura altamente disordinata e per frammenti, che segue il ritmo della danza improvvisata.
Scegliere l’autobiografia, narrare attraverso lo sguardo “candido” di bambina, se da un lato era forse l’unico modo concesso ad una donna negli anni trenta per accedere alla letteratura, “una scelta cosciente e ponderata”, commenta Minardi, dall’altro è consapevolmente e strategicamente trasgressiva perché permette a Campobello di raccontare, per esempio, la sensualità della madre come dimensione assolutamente naturale – Entrava in casa, si scioglieva i capelli, cantava, andava e veniva; […] Accendeva una sigaretta e, a volte, si sedeva alla porta a contemplare il cortile […]; a volte faceva girare un anello che portava nella mano, tirava boccate su boccate e quasi socchiudeva gli occhi. Allora noi non facevamo rumore.
Ma le permette anche di narrare “dall’interno”, da una dimensione “intima”, “domestica” la violenza e l’orrore della guerra civile rendendoli ancora più crudeli. Punto di vista del tutto anomalo negli anni trenta. Ma è usando i bambini, e il corpo materno, testimoni privilegiati per la loro posizione al di fuori della storia e della cittadinanza, che tutta la disumanità della rivoluzione può emergere senza infingimenti e giustificazioni. La scrittura di Campobello è stata infatti definita “scrittura della crudeltà dell’innocenza” provocando al contempo l’accusa di “insensibilità disumana” nei confronti dei morti per la rivoluzione descritti come “bambini che danno i primi passi”. Narrare a partire dal corpo della madre risulta particolarmente trasgressivo in quanto, scrive Minardi, “si configura così una mappa del corpo smembrato della nazione messicana che contrasta col corpo pieno ed epifanico della madre, le cui mani ne formano la parte essenziale”: – Una mano soffice e bianca. L’altra dorata e dura. Sono due mani diverse, ma possono essere uguali. … lei faceva tutto per noi con le sue mani, noi che non eravamo niente -. “Metafora dell’approvvigionamento di alimenti, del prendersi cura […] ma anche metafora velata del segreto che la madre condivide con la figlia maggiore: le mani di una donna che non si sottomette a certe leggi dell’uomo”. Una madre che mette ordine nel kaos che crea l’uomo e alla cui legge – che afferma “i figli nati dalla propria carne non sono nostri” – finge di ubbidire, evidenziandone l’asimmetria in relazione al corpo femminile: – La mia salvezza l’aveva Dio, quindi capii che era nelle mie mani. Mi strappai la camicetta e una manica. Aspettai la mattina e con mia figlia in braccio mi presentai davanti ai giudici … Mi accusavano. Tutti discutevano… le mie mani stringevano in un nodo il minuto fagotto che formavano mia figlia di un anno e io. … non mi mossi. Per che cosa? La mia difesa ce l’avevo nelle mie mani. “Se le leggi sono costruite in base agli interessi degli uomini”, scrive Campobello, “uno strappo alla camicetta fatto al momento giusto, getta in aria le ottocento pagine dove lo si afferma”.
Fingere, far credere: modalità di cui le donne vissute in pieno patriarcato si servivano per costruire al contempo un ordine differente, un nuovo simbolico. Sono temi che anticipano in modo sorprendente quelli del femminismo degli anni settanta. Una ri-scrittura della storia a partire dall’esperienza femminile, che non rivendica un posto della donna nella storia degli uomini, ma costringe ad uno spostamento di sguardo. A partire dal riconoscimento della potenza creativa materna. Una madre produttrice non solo di corpi bambini ma di “strategie culturali contro discorsive” (Minardi): – Lei ci forgiò così -. Una madre ludica che si muove, va, torna, danza, ricama, canta, gioca, ride: – I suoi piedi ricamavano passi di danza per noi. Una figura “seminale” la definisce Minardi, in divenire, che “ruotava al vento come un papavero rosso che va perdendo i petali”.
Nellie Campobello, Mani di madre, ed. Besa, pag. 111, euro 13.
dee fuori dal tempio, vivere e pensare la relazione madre- figlia, ed. Melusine, 1992
Della stessa autrice: Cartucho Racconti della rivoluzione nel nord del Messico a cura di Giovanna Minardi, Le Lettere, 2011
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