I fantasmi e la fine della cura

di Nada Pesetti, 16 dicembre 2016

È una storia di acqua e fango, di nevi, inondazioni, incendi, foreste e disgeli, ma soprattutto di perdita e sopravvivenza quella che si aggomitola ne Le cure domestiche di Marilynne Robinson che, pubblicato nel 1980, precede di quasi trent’anni il primo della trilogia (Gilead, Casa, Lila), per la quale l’autrice ha raggiunto la fama anche qui da noi, ed esce ora in italiano.

 

Sono le sfaccettature e il cesello finissimo della scrittura stessa ad evocare le presenze sommerse nel tempo e nelle acque e la loro persistenza nel quotidiano.

Ruth, bambina all’epoca degli avvenimenti, è l’io narrante che recupera l’infanzia dolente sua e della sorellina Lucille, il suicidio della madre, gli anni trascorsi con la nonna, finché alla morte di lei, dopo un provvisorio interregno tutelare di due prozie, arriva a vegliare su di loro Sylvie, sorella della madre, vagabonda hobo.

Da sempre tesa a fuggire “l’occhiata del mondo”, a essere invisibile “o, per meglio dire, a esistere in modo minimo e incompleto”, Ruth si candida subito con la sua “strenua immaginazione” non ad osservare la superficie, ma a interpretare la profondità del mondo, condividendo inizialmente l’esperienza con Lucille, attraverso “l’attenzione acuta e costante di bambine perse nel buio”. E la sua è una narrazione di oggetti e presenze, la casa, i cassetti, il loro disordine così assoluto da fare pensare che contenga un ordine, un mondo visitato e inquieto ma non inquietante, struggente e malinconico ma non triste. Un mondo che non ha spiegazioni, ma attinge a un senso profondo.

Ai margini della cittadina di Fingerbone, vicino al lago e sulla collina, la casa è percorsa dai venti e allagata dalle acque del disgelo senza che questo destabilizzi più di tanto giochi e letture delle due bambine. “Avevamo grilli nella dispensa, scoiattoli sulle grondaie, passeri in solaio.”

I posti più desolati si animano di luce, “una fioritura nella brina”, così come potrebbe colorarsi e rivivere “Cartagine seminata a sale”.

Ruth via via si lega sempre più a Sylvie, la zia vagabonda, che abita “un presente millenario” e torna a casa coi pesci nelle tasche, e vede allontanarsi Lucille, desiderosa di integrarsi tra le compagne, mentre coltiva intanto la certezza pervicace che oggetti e persone non muoiono, perché “qualsiasi cosa possiamo perdere, un desiderio disperato ce la restituisce di nuovo… il desiderio intenso, come un angelo, ci rifocilla, ci liscia i capelli, e ci porta fragole selvatiche.”

Le brevi storie dei vagabondi che Sylvie ha incontrato sui treni incrociano fantasmi della casa, personaggi di fiabe e figure evangeliche, tutti accomunati dalla speranza di Ruth che “passino finalmente dalla porta e ci accarezzino i capelli”.

Sylvie, l’irregolare, combatte invano contro il suo disordine per poter restare con Ruth, per non trasfigurarla in un’altra assenza “gigantesca e multipla, sottile e solubile” e Ruth, pur subendo un’attrazione irresistile ad essere assenza, combatte insieme con lei, per salvare se stessa e le cose del suo mondo perché “alla luce uguale di uno scrutinio disinteressato queste cose non sono se stesse. Vengono trasformate in puri oggetti.”

Ma alla fine Ruth arriva all’idea “che il dolore sia qualcosa di predatorio” e accetta che venga scritta “la parola fine a ogni forma di cura domestica”. “Quando sono diventata diversa dall’altra gente?” La risposta a questo destino la vede forse nell’ “abitudine all’attesa e alla speranza che rende ogni attimo presente particolarmente significativo per ciò che non contiene”.

 

Marilynne Robinson, Le cure domestiche, traduzione di Delfina Vezzoli, Einaudi, pp. 201, € 18.50

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Nada Pesetti

fotografa e poeta, vive a Genova

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