Quando cominciate un nuovo libro che cosa viene per primo: un evento, une scena, uno o dei personnaggi?
A seconda del libro. Nel romanzo autobiografico che ho scritto su mio padre, ovviamente, il punto di partenza era lui, visto che il progetto consisteva, appunto, nel ricomporre in forma letteraria la personalità di quell’uomo reale. Una volta mi è stato chiesto di scrivere un testo per un libro collettivo in cui ogni autore doveva evocare un incontro importante per la propria vita; anche in questo caso, la regola del gioco chiedeva di imperniare il racconto su un personaggio realmente esistito, e mi sono ispirata – anche se molto più liberamente – dal ricordo di Viola (che naturalmente non si chiamava così), una stramba ragazza italiana conosciuta durante un soggiorno sulla malinconica costa nord del Galles.
In genere, però, quando comincio un romanzo, direi che prima di tutto si impongono un tema, un’atmosfera, le grandi linee di una storia da raccontare – anche se non so mai in anticipo come andrà a finire. I personaggi stanno annidati nelle pieghe della storia, emergono subito ma appena sgrossati, mal delineati, e l’andamento del libro dipenderà dalla dialettica che riuscirò ad avviare fra questi personaggi dall’identità ancora labile e quella storia dalla struttura ancora incerta.
Vi sembra che la differenza tra personaggia/gio sia importante? Decisiva? Senza importanza?
Decisiva nel senso che l’appartenenza sessuale, a mio parere, esercita sempre un’influenza sul nostro modo di essere al mondo, di comunicare col prossimo, di vivere le nostre esperienze (anche quelle apparentemente più neutre, come scegliere un posto in treno, sbrigare una pratica amministrativa o osservare un’ameba al microscopio). Non tanto per natura quanto per il retaggio culturale della differenza che tutte e tutti ci portiamo dietro, un personaggio incarnato è un personaggio sessuato, impossibile da sostituire con uno dell’altro sesso, anche se il suo essere donna o uomo sembra aver poco a che vedere con le sue vicende.
Se si tratta di un personaggio questo (lui o lei) è legato a un ricordo, a un fatto di cronaca, a un avvenimento storico, personale o collettivo, a un’immagine, a una frase …?
Eccezion fatta per i racconti autobiografici, dove i protagonisti devono «solo» essere trasformati in personaggi letterari, l’origine dei personaggi è nel mio mondo interiore, nella necessità di dire, tramite loro, qualcosa che mi sta a cuore; quindi, tutti gli spunti menzionati nella domanda possono servire a dar loro vita, ma non determinano in partenza la loro personalità e il loro destino. Nell’ultimo romanzo che ho scritto, un personaggio che doveva essere svizzero è diventato spagnolo perché a un certo punto mi è sembrato importante includere nella sua storia un ricordo personale, quello di una scultura equestre che si trova a Madrid; allora gli ho inventato una storia un po’diversa da quella che avevo immaginato sulle prime, l’immigrazione a Ginevra (un tema che conosco bene), una sorella che tiene un negozio vicino alla plaza Santa Aña (anche questo un ricordo)….
Credo che tutti gli scrittori e le scrittrici diano spessore ai loro personaggi riciclando gli aspetti più svariati del proprio vissuto, ma per quanto mi riguarda il personaggio in se stesso nasce per lo più da un progetto di scrittura che rende necessaria la sua esistenza. Finora, ad esempio, non ho mai avuto voglia di raccontare la storia del protagonista di un fatto di cronaca letto sul giornale, perché nessun fatto di cronaca mi è mai sembrato corrispondere al tipo di storie che mi va di raccontare (forse potrà accadere in futuro…); ciò non toglie che spessissimo dettagli tratti da fatti di cronaca, o da storie di terze persone raccontate da qualcuno che le conosce meglio di me, mi sono serviti a dare carne e sangue a un personaggio.
Quando il personaggio si è confermato o imposto lo lasciate continuare il proprio cammino, in altri termini trovate che i personaggi abbiano o no una vita autonoma?
Direi di sì. All’inizio, il personaggio, come ho già detto, è solo abbozzato. Il suo carattere, la sua storia anteriore e anche gli eventi che costituiranno la trama del romanzo sono definiti solo nelle grandi linee, e si andranno man mano precisando in funzione di molteplici fattori (gli episodi che vado via via inventando, l’interazione con gli altri personaggi, il clima che si instaura nel libro). Per me, la scrittura di un romanzo consiste nell’avanzare un po’alla cieca, cercando di ricostituire ad ogni tappa una coerenza fra il profilo psicologico ed esistenziale dei personaggi e le loro vicende, in buona parte non previste all’inizio – il tutto però senza perdere di vista il senso originario del progetto. I personaggi hanno quindi un largo margine di «libertà», possono dire o fare cose inaspettate – ma in realtà più dei personaggi è il dipanarsi della logica interna del libro che comanda.
Secondo voi, i personnaggi /le personagge sono più forti o no dell’autore/autrice?
Stephanie, una delle mie personagge, doveva andare a curarsi la depressione in un casale isolato nella campagna provenzale, con una terapeuta indiana tipo esorcista, il cui metodo consisteva nel cacciare i demoni dal corpo dei pazienti. La scena era già scritta, ma Stephanie, in fin dei conti, non ci è voluta andare… I personaggi resistono a certe «buone» idee dell’autrice, e a volte la spuntano! In realtà, la scena stonava, era troppo drammatica e forse gratuita. In questo caso, Stephanie è stata più forte, non di me, bensì della mia voglia superficiale di inserire nel libro una scena emozionante, ma che non c’entrava. Morale: se un personaggio sembra prendere il potere sfidando chi scrive, per lo più la sua alzata di testa è un modo di rimettere chi scrive in carreggiata, di aiutarlo (o aiutarla) a trovare le soluzioni giuste per perseguire il proprio progetto. Devo ammettere però che in certi casi questi personaggi esagerano, decidendo di punto in bianco e senza avvertire di modificare completamente lo svolgimento del racconto. E poi tocca a me rincollare i cocci rotti!
Vi è capitato di essere state sorprese dal sopraggiungere di un personaggio inaspettato? In che modo il personaggio/la personaggia è una straniera/ uno straniero per voi? O al contrario qualcun/a di estremamente intimo?
Per quanto riguarda la prima domanda: sì, spesso, ma solo trattandosi di personaggi relativamente secondari, che contribuiscono all’atmosfera del romanzo come un paesaggio visto dal treno, una canzone che esce da una finestra, un odore, un colore.
Al principio, i personaggi sono tutti stranieri, anche quelli nei quali ho previsto, più o meno coscientemente, di proiettare una parte di me; poi diventano per forza di cose conoscenti intimi, visto che passo ogni giorno un po’ di tempo con loro a cercare di capire chi sono. Il che non significa che diventano miei amici – con alcuni di loro, francamente, non mi andrebbe di andare a cena al ristorante!
Mi sono chiesta se per me sia più facile diventare intima con le mie personagge che con i miei personaggi. In un certo senso sì: Marie, una personaggia quarantenne senza figli, che ha rinunciato ad averne per puntare tutto su una prestigiosa carriera nell’alta gastronomia, si rende conto, incontrando un potenziale amante su una crociera, di aver avuto un comportamento ambivalente «dimenticando» di comprarsi i condom prima di partire; e anche se io, invece, sono diventata madre a 24 anni, e se in fondo non provo grande simpatia per questa Marie, cogliere il suo stato d’animo mi viene naturalissimo. Mentre con certi protagonisti uomini ho a volte un po’ faticato a immaginare la loro vita interiore. Tuttavia, capisco meglio Zen, uno scultore malato di cancro che vuole assolutamente finire la sua ultima opera prima di morire, di quanto capisco Giulia, una signora «bene» che non ha mai avuto altra ambizione se non occuparsi della famiglia e tenere il suo rango sociale…
Quale tra personaggi (maschili e femminili) delle vostre letture avete amato di più?
Da bambina scandalizzai mio padre dichiarando che il personaggio di romanzo che mi sarebbe più piaciuto essere era il Capitan Tempesta di Salgari. Ma come, un uomo? No, mi giustificai, una donna travestita da uomo! Durante l’adolescenza – l’età in cui si leggono i classici – i miei personaggi preferiti erano quelli maschili: sì, certo, Natascia mi commuoveva, ma vogliamo mettere l’interesse dei suoi problemi sentimentali con quello delle profonde questioni metafisiche che tormentano il principe Andrej? Erano sempre gli uomini, nei romanzi che leggevo, a impersonare l’universale condizione umana, e proprio quella, appunto, io volevo capire studiando filosofia all’università. Ho letto e riletto “La morte a Venezia”, identificandomi appieno – io, giovane donna italiana inesperta e presumibilmente eterosessuale della seconda metà del novecento – con un anziano scrittore tedesco dell’inizio del secolo stregato da un bel ragazzino polacco. Gli unici personaggi femminili che mi piacevano erano quelli in cui l’amore (preoccupazione obbligatoria delle donne) assumeva tinte abbastanza tragiche da conferir loro un’universalità paragonabile a quella degli uomini : non per niente, quando anche io mi sono messa a scrivere, ho scelto per una delle mie personagge il nome di Alissa, la protagonista de “La porta stretta” di André Gide, che rinuncia dolorosamente ad una passione ricambiata per non rubare il fidanzato alla cugina.
Da adulta, però, ho capito che qualcosa non quadrava in quel mio perpetuo mascherarmi da Capitan Tempesta, e oramai da molto tempo ho una chiara preferenza per le tante figure della narrativa contemporanea che incarnano un’universalità più vera, radicata in un corpo di donna e in un’esperienza atavica che ci è comune, a loro e a me, anche se le nostre storie individuali sono, magari, diversissime. Allora, se ne devo citare una sola, scelgo la Frederica della tetralogia di Antonia S. Byatt (“La Vergine nel giardino” e altri tre volumi), che attraversa la seconda metà del ventesimo secolo emancipandosi progressivamente, nei suoi rapporti con gli uomini e nella sua vita professionale, dalle soffocanti convenzioni del suo ambiente.
Quali dei vostri personaggi/e amate di più?
Alcuni anni fa ho scritto un romanzo che, con mio stupore, diversi editori hanno rifiutato di pubblicare. Può capitare a tutti di scrivere un brutto libro, però non questo sembrava essere il problema. Anzi, il testo è stato giudicato bello, ma…. ma che cosa? Troppo intellettuale, complicato, difficile da capire. Un testo imbarazzante, che non funzionava, senza che nessuno riuscisse chiaramente a spiegarmi perché.
La struttura del romanzo era effettivamente molto complessa, e forse richiedeva troppo sforzo ai lettori. La mia ipotesi è comunque che uno degli elementi del problema fosse la personalità della protagonista. Constance è una donna di cui si sa poco, e il poco che si sa non è rassicurante: vive da sola in una casa isolata in mezzo a un labirinto di colline, non ha figli, si è allontanata dalla professione e dagli amici, e sopratutto ha lasciato un uomo che l’amava e che lei (forse) amava, non già per un altro, ma per un progetto di vita dove l’amore non conta.
In lei avevo proiettato una parte segreta di me, la nostalgia di una vita non gravata dalla psicologia e dai sentimenti, dalla dipendenza affettiva dagli uomini e dai figli. Una vita indipendente, non già sociologicamente (nel senso dell’indipendenza economica e sessuale) ma esistenzialmente. Non avere quel perpetuo bisogno dell’approvazione altrui, trovare in se stessa la propria ragione di essere.
Questa personaggia, chiaramente, non è stata capita, o non è piaciuta. Ne ho create altre, più simili alle donne che ci si aspetta di incontrare, che sono piaciute di più. Forse somigliavo e somiglio ancora troppo poco a Constance per riuscire a farla vivere attraverso le pagine di un libro stampato, ma io continuo ad amarla e a pensare a lei.
Silvia Ricci Lempen è nata a Roma nel 1951 e vive dal 1976 nella Svizzera francese. Dopo aver completato un dottorato in filosofia all’università di Ginevra, è stata caporedattrice della rivista femminista «Femmes Suisses», poi giornalista culturale, poi insegnante universitaria nel campo degli studi di genere. Attualmente si dedica principalmente alla sua attività di romanziera. Pur essendo di lingua madre italiana ha scritto finora principalmente in francese. Il suo primo romanzo, pubblicato in francese nel 1992, è stato tradotto in italiano col titolo «Una Famiglia perfetta» (Iacobelli, 2010) e un romanzo scritto direttamente in italiano uscirà nel 2012.
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