Questa striscia che chiamo vita

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Rovescia la logica elettronica, che garantisce il salvataggio di qualsiasi scrittura, Salva con il nome, l’ultimo raccolta di poesie di Antonella Anedda, la poeta nata a Roma ma di orgine sarda, autrice tra l’altro di Residenze Invernali, Notti di pace occidentale – con cui ha vinto nel 2000 il XVIII premio Montale, Il balcone del corpo. Nell’introdurre il tema controverso del nome delle persone, da subito Anedda avvisa che nemmeno il nome offre sicurezza perpetua.

La sua poetica, che è congegnata nell’anarchia del verso libero, con l’uso di figure di ripetizione come le anafore e la «rima zero», crea una sorta di attesa, simile all’enigma: è il dipanare di una perenne pena, con la consapevolezza che solo «la nudità alla fine ci raggiunge».

Tutto parte dall’«autoritratto come guerriero nuragico», nel quale l’io esprime il desiderio d’inabissarsi e liquefarsi: solo la fine della vita è in grado di incolonnare i ricordi, i nomi e i visi, e l’esistenza si riduce a «questa striscia che chiamo la mia vita» e al recinto degli oggetti: le fotografie, i quadri, la forbice, l’ago.

La morte, irrapresentabile per l’inconscio -e un tempo associata al mito del corpo femminile come orrore della castrazione-, è la cifra della raccolta. È un gesto politico radicale, eversivo quanto più il mondo rimuove la morte dalla faccia dell’Occidente: l’autrice riverbera parti frantumate di sé negli oggetti casalinghi, o nei gesti quotidiani, o si vede sdoppiata, come di notte in una cucina, mentre beve latte, o, in una stanza d’albergo. Si trasforma in un poeta duplicato, o, ancora, si sfalda in frammenti, che si rifrangono e disperdono come rivoli con poca tregua -per usare uno dei suoi termini-, indifferentemente nel paesaggio isolano o cittadino.

Una richiesta di soccorso caratterizza il testo fin dall’inizio: la prima poesia, ambientata nel 1950, scritta in corsivo, descrive il reparto donne di un sanatorio e la loro solitudine, mentre la quinta lirica chiarisce che si tratta proprio della madre di Anedda,  fino ad arrivare all’ultimo testo, datato 1956, che narra dell’agonia di colei che «è – non è» sua genitrice, non più trattenuta dalla «cornice»-vita.

Brandelli di memoria che dicono della malattia e della morte materna, ma forse per analogia un tentativo di parlare della propria morte. Si avverte la coscienza dell’invecchiare, non solo come persona, ma anche in quanto a propria volta madre. Il libro è dedicato alla figlia Sofia.   

La terza sezione di otto liriche, Salva con nome, poi, comincia con la descrizione minuziosa della morte di una donna, che cade e, soccorsa, registra le percezioni e gli ultimi frammenti di pensiero, vivendo in una soglia di male estremo.

Nel successivo canto, Spazio della pura estiva e Spazio della paura, colpisce l’inanellarsi di immagini funeree e altro tema ricorrente è la paura, che può essere indifferentemente diurna che notturna, e, in ogni caso, la pace terrena non è ristoratrice, si risolve in  una pace funebre, «da scheletri» da museo.

Nella settima sezione, Fuochi, tutta dedicata ad una coppia con la fine della loro storia d’amore è presente una coralità -similmente a Dal balcone del corpo-, che come nel teatro greco, espande e attualizza l’azione: il noi, tremante e «mortalmente» spaventato sbanda «tra gli oggetti sperando siano veri», e imitando gli animali, si trasforma in «serpi» che, pulendosi, si intrecciano; in un momento di tregua -«un lembo di tepore»- è perché i nomi non coincidono più «con le cose e neppure i corpi»: per traslazione, infatti, solo in un sogno si può portare l’altro/a in un paese «innamorato» e straniero.

Quando il desiderio, poi, non è più presente e «affamato», gli amanti «tacciono. Pensano cose distanti» e la soluzione che propone alla donna è di «fingersi morta»; infatti «non esiste riparo» per coloro che, simili ad uccelli, come in Residenze, sono stanchi e «ubriachi di cose» e «lui», non più smarrito dalla vergogna e dalla paura, sa pronunciare il nome femminile a voce alta, decretando il mortale referto.

L’amore del futuro si riduce ad essere solo «una scaglia», un frammento di ciò che era, in cui splendono solo il silenzio e la lontananza, anche perché il sesso non è più fonte di piacere, bensì stretto nella morsa del «gelo» e il sentimento, se sconfina, non arriva fino al cuore, dal momento che non penetra con la forza di un «ago».

E dormire in due può significare stendersi «vicini in una silenziosa sepoltura», poiché «lui» non la guarda e non la ama e l’amore difettoso, imperfetto non può che recare dolore e «disfare» l’essere che lo riceve.

Non è evocato l’amore sensuale e passionale, ma proprio la sua morte, e prevale il senso di decadenza, di estinzione, di privazione: una solitudine vissuta in due, da estranei, colti proprio «sulla porta di casa», in «ritorno dal viaggio della vita di un giorno» e consumata sensibilmente più da parte femminile che maschile; s’impone la fine, la fine di tutto.

L’ottava sezione, Terra, introduce l’argomento dell’invecchiare, oltre a ricorrere, come veicolo comunicativo, agli elementi della natura; la lirica Sfondo, nella quale solo degli animali, i fenicotteri, appaiono «invincibili», evoca nella donna la consapevolezza, essendoin grado di procreare, di essere visceralmente e atavicamente legata alla terra.

Anche il ricorso alla lingua sarda diventa un mezzo per rimarcare la paura di non riuscire ad ammaestrare «su dolore», quando il «traghetto vira» -non si sa se per raggiungere o allontanarsi dalla Sardegna; l’uso moderato e controllato dell’idioma appreso nell’infanzia, nella precarietà ineludibile dell’esistere, perciò, vira, a sua volta, nella costante idea del trapasso.

Risulta significativo che la terzultima poesia, Video, composta dopo la visione di Ocean without a shore di Bill Viola, tratti di nuovo dei morti, che si ipotizza non desiderino tornare e che possono vedere come i vivi, illusi e pazzi, si ostinano a raccontare «tutta la bellezza incomprensibile» del mondo ed anche ad amare.

Una prosa chiude la raccolta, è dedicata alla Chiesa della Trinità nell’isola La Maddalena: la domanda centrale è se tra i nomi delle fotografie, collocate al posto degli ex-voto, ci siano anche quelli le cui ossa andarono disperse nel cambio di cimitero avvenuto tempo fa, ossa che «cadevano […] confondendosi tra loro». Infine nella successiva visione che evoca gli 800 martiri della strage perpetrata dai Turchi nel lontano 1480, anche loro ossa ammassate e conservate in una cappella a Otranto, la frase definitiva si riallaccia, in un processo circolare, al “su Componidori” iniziale, di cui non si sa «né il sesso né l’età né il nome».

Antonella Anedda, Salva con nome,119 pagine, 16 euro Mondadori Milano 2012

Tra i libri di Antonella Anedda:

Residenze Invernali Crocetti Roma 1992

Notti di pace occidentale,  72 pagine, 9,30 euro, Donzelli Roma 1999

Dal balcone del corpo, 102 pagine Mondadori 2007

 


 

 

 

 

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