Il portatile aveva un peso inadeguato alle misure da giocattolo, lo schermo era nero e il programma pure. Era un programma difficilissimo (word star credo si chiamasse), che non so come avessi fatto a imparare. Avevo con me anche una stampante Canon portatile: era costata molto, ma si inceppava continuamente. Io però non desistevo: mi fidavo decisamente di più della carta, perciò stampavo tutto.
Con un complicato sistema di cavi elettrici e “ciabatte” ero riuscita a far arrivare l’elettricità fin sulla terrazza, mi ero sistemata a un tavolino di plastica, sotto l’albero del pepe, e avevo finalmente aperto la cartelletta con i preziosi appunti. Era stato un momento emozionante. Finalmente mettevo mano al materiale che raccoglievo e nutrivo da anni. Se ero a San Remo, ospite di un’amica che mi aveva lasciato la casa, era perché in fondo al cuore volevo dedicarmi a quella traccia che neppure sapevo se mai sarebbe diventata un libro. Ufficialmente però ero venuta perché mio figlio andasse alla scuola italiana. Ce l’avevo accompagnato quel mattino; era serio serio nel suo giubbotto nero, ma io avevo fatto finta di non accorgermi della sua riluttanza. Io alla sua età (nove anni) avevo già girato le scuole di mezza Italia e conoscevo molto bene la condizione di “nuova”. Non era necessariamente un’esperienza traumatizzante. Gli sarebbe servita.
Ora, dunque, avevo la mia pace. Una brezza leggera, gradevolissima, faceva sollevare i fogli; dovetti spostarmi all’ombra per poter vedere nel piccolo schermo, però funzionava! Cominciai a scrivere seguendo gli appunti. Credevo, a quell’epoca, che solo la carta fosse in grado di restituirmi le idee con la giusta diligenza e che il computer servisse soltanto come trascrizione “in bella”; presto però mi accorsi che le idee che mi si affacciavano strada facendo erano troppe per poterle costringere in un percorso prefissato. Non avevo bisogno di appunti, i pensieri scorrevano come se li avessi sempre pensati, le immagini si affacciavano ai tasti con un’irruenza infrenabile, come se avessero vita propria. Dovevo farmi forza per interrompere. Il gatto nero che si strusciava contro le mie gambe non poté strapparmi che una furtiva carezza, non mi accorgevo delle foglioline che piovevano dal pepe sulla tastiera, non sentivo né i richiami dai balconi vicini né i rumori della strada al di là del muro di cinta. La terrazza della villa e il giardino intorno erano un’isola al di là di ogni distrazione. Andavo avanti, stupita e felice di procedere così in fretta. Era una gioia spassionata, del tutto priva di qualsiasi ambizione: mai avrei pensato di offrire il testo a un qualche editore, scrivevo perché dovevo dar forma alle idee che avevo dentro di me e farle uscire. Non volevo di più. Naturalmente intuivo che nel testo che cresceva c’erano pagine belle e altre invece pesanti e piene di ripetizioni, ma non avevo ancora, a quel tempo, il coraggio di cancellare quello che avevo scritto, tanto mi pareva tutto prezioso e irripetibile.
Intanto mio figlio, nei giorni in cui io, seduta sotto il pepe, premevo come un’indemoniata sulla mini tastiera, imparò i testi di Fratelli d’Italia e di alcune altre canzone italiane. Passammo pomeriggi interi seduti sul dondolo a cantare Fila la lana, fila i tuoi giorni, illuditi ancora che lui ritorni, ma mentre io ci mettevo tutta la passione di cui ero capace, lui si interessava soprattutto alle moine del gatto nero. Alla fine, quelle parole le ho imparate solo io.
Vicolo verde non divenne il mio primo libro, ma il quarto, e vide la luce soltanto nel 2006, undici anni dopo essere stato scritto.
Silvia Di Natale, nata a Genova, vive da molti anni in Baviera. Autrice di romanzi e altri scritti, ha sempre viaggiato molto. Basta pensare ai vagabondaggi euroasiatici che hanno preceduto la stesura del suo primo libro, Kuraj, pubblicato da Feltrinelli nel 2000; vincitore del premio Bagutta Opera prima e del premio Donna Città di Roma 2000, Kuraj è stato tradotto in tutti i paesi europei. Sempre per Feltrinelli, ha pubblicato Il giardino del luppolo (2004), L’ombra del cerro (2006), Vicolo verde (2008), mentre il più recente Millevite, è del maggio 2012.
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