Gabriella Ghermandi, nata ad Addis Abeba (Etiopia) da madre eritrea e padre italiano, si trasferisce quattordicenne a Bologna (1979), città originaria paterna. Conduce laboratori di scrittura creativa nelle scuole, è fondatrice della rivista online “EL-ghibli”, ha diretto il Festival Evocamondi a Bentivoglio, scrive e interpreta spettacoli di narrazione. Dopo racconti pubblicati in varie riviste, nel 2007 con Donzelli pubblica il romanzo Regina di fiori e di perle, che nel 2008 diventa performance a Bologna con Stefano Benni e musica di Gabin Dabiré. Fin dal Laboratorio “Raccontar(si)” del 2007, oltre alla scrittura, mi ha colpita quel passare di Gabriella dalla riflessione alla rappresentazione con una straordinaria capacità di relazionarsi ed emozionare, attraverso il potere della parola cantata in altra lingua: si parlava di “performatività dell’affetto” ed ha avvolto le partecipanti in un’affabulazione fra “storie di storie nella storia”.
Gli italiani non hanno costruito solo “strade e ponti” a “quei neri selvaggi”, né hanno “abbellito e ammodernato” quel Paese “pidocchioso”, come sosteneva invece l’intellettuale del regime fascista Margherita Sarfatti sull’avventura coloniale. Perciò, di fronte ad una invasione italiana avversata da tutta la popolazione civile perché l’Etiopia non era mai stata colonizzata, il tuo libro costituisce una rivisitazione della storia degli ‘italiani, brava gente’: hai voluto – strappando dal silenzio ricordi e storie – spingerci a ricordare quel passato rimosso per un atto di giustizia?
«Nel tempo le cose cambiano. Quando ho scritto era il desiderio di mettere un sasso sul piatto vuoto della bilancia della Storia così come veniva proposta in Italia. Quante volte mi sono incendiata di rabbia quando le persone di una certa età mi lanciavano i commenti tipici “Noi italiani siamo i soliti, siamo venuti nella vostra terra, vi abbiamo costruito strade, ponti, ospedali… poi gli inglesi ci hanno dato un calcio, ci hanno mandato via e hanno sfruttato tutto ciò che noi avevamo costruito”. Quanto mi sono sentita trasparente, quante volte nel cuore mi è sorta una domanda “E noi?”, perché era evidente che noi non fossimo contemplati. Eravamo parte del paesaggio. Come degli alberi, che all’occorrenza, se davano fastidio, potevano essere sradicati. Scritto quel libro ritengo, per quanto mi riguarda, di aver pareggiato i conti sulla mancanza di analisi rispetto al colonialismo italiano. E ora anche i discorsi buonisti mi causano minore sofferenza e non sono più intollerabili. Certo, non li accetto, ma posso sorridere senza sentirmi trasparente.»
La tua scrittura crea uno spazio postcoloniale nella letteratura italiana, illuminando vicende e corpi negati, mettendo in crisi il canone e l’idea di centro culturale: la donna nera, la Mariam di Flaiano, che subisce il desiderio violento del fascista, con te occupa il centro della scena e scrive una diversa storia della oppressione coloniale, rispondendo alla domanda di Spivak –“può la subalterna parlare?” Ti confronti così direttamente con la letteratura italiana e scegli, per capovolgerne lo sguardo, uno scrittore interessante e discusso per la disillusione dell’antieroe. Il tuo romanzo è nato dalla consapevolezza di questo capovolgimento, quando hai ‘incontrato’ Flaiano?
«Un amico mi regalò “Tempo di uccidere” trovato su una bancarella, pensando che mi sarebbe piaciuto. Avevo già maturato il desiderio di scrivere, ma devo dire che ronzavo attorno all’idea del colonialismo italiano senza mai decidermi ad affrontarlo. Poi, ho letto Flaiano e non mi sono più sentita sola, e allora ho scritto. Flaiano per me è stato un grande regalo. L’unico romanzo che tratta il colonialismo italiano, scritto subito dopo la fine della guerra, nel 1947. Flaiano aveva visto e aveva deciso di non restare in silenzio. C’è un centro nel suo romanzo che mi ha fatto sentire risarcita. Quando ero piccola ho sentito spesso dei commenti di alcuni italiani che più o meno esprimevano l’anaffettività degli etiopi “Sono come i gatti. Non si affezionano”. Anche Flaiano nota questo luogo comune e lo riporta nel suo romanzo, e poi lo distrugge attraverso un personaggio: il padre di Miriam che cura l’ufficiale, lo guarisce dalla sua ferita, una ferita simbolo attorno a cui si costruisce tutto il romanzo. L’anziano lo tratta male e lo guarda male, ma lo guarisce. Alla fine, l’ufficiale mentre va via, capisce che l’anziano ha sempre saputo che lui ha ucciso la figlia. Per tutto il romanzo viaggiano in parallelo la ferita dell’ufficiale e la ricerca della figlia da parte dell’anziano»
Nel libro emergono voci di donne, fra cui la “signora della tartaruga” che narra della madre contadina diventata “arbegnà” nella resistenza, e dell’imperatrice Taytu che combatte con Menelik gli italiani ad Adua: un affresco di donne che parlano ed agiscono, prendendo il fucile perché il “tempo” lo richiede. Rispetto anche al fenomeno del ‘madamismo’ nel colonialismo, intendi così valorizzare le figure femminili e ri-costruire, anche simbolicamente, una memoria collettiva?
«Volevo scrivere contro l’idea stereotipata della donna africana sottomessa, senza capacità di discriminare, di attraversare delle storie diverse, anche di guerrigliere impegnate nella resistenza contro i fascisti. Proiettare la sottomissione sulle donne di un altro popolo è rifiutare di vedere in casa propria. Per le etiopi, non è così omogeneo come si dipinge, e in contrapposizione alla sottomissione ci sono stati sempre molta libertà e protagonismo da parte delle donne etiopi, infatti ci sono state guerriere, regine, condottiere, pittrici, poetesse etc… Focalizzarsi sulla sottomissione delle donne africane in questo modo così stereotipato, da parte delle donne europee, fa evitare di guardarsi e vedere come anche in occidente le donne siano sottomesse e in un modo forse peggiore, in quanto è inconsapevole. Io per esempio sono sempre molto colpita dalla mercificazione che si fa in occidente del corpo femminile, delle immagini. Penso al corpo delle donne nelle trasmissioni della tv italiana e mi chiedo che differenza c’è se un corpo viene violato obbligando alla seminudità oppure alla totale copertura?
Penso al modo ossessivo di seguire la moda in Italia, omologandosi al punto che spesso non vi è alcun tipo di indipendenza e creatività, non vi è alcuna ribellione. In occidente ho spesso la sensazione che le donne non si facciano belle per sé ma per
gli altri. Quando ci si sottomette a delle idee che non nascono da noi, che sia una gonna sotto le chiappe, un pantalone attillato a vita bassa, un burka… etc, vuole dire che siamo schiave di qualcosa. Solo se possiamo pensare di mettere il burka ma anche non metterlo oppure mettere un pantalone a vita bassa o meno siamo libere. Altro fatto, in occidente noto come le donne abbiano svenduto la sensualità femminile in favore di una sessualità maschile e una emulazione della spigolosità maschile.»
I racconti della violenza razziale del colonialismo italiano – che non lasciano spazio a stereotipi consolatori – avvengono nel giardino di una chiesa ad Addis Abeba, fra una preghiera ed una riflessione con un vecchio eremita: si tratta di una forma di rituale che permette alla memoria individuale di diventare patrimonio collettivo, quasi a riparare il trauma di un popolo?
«Era per me importante mettere in contrapposizione il modo di vivere il lutto in Italia, in totale solitudine, almeno nella città in cui vivo io, e in Etiopia, dove per accogliere chi viene a porgere le condoglianze e chi fa compagnia alla famiglia del defunto, si issa la “tenda del pianto”. Il pianto collettivo ti svuota dal dolore, ti aiuta a proseguire, il rapporto con gli altri ti contiene e sostiene. Mahlet nel libro non riesce a partecipare al lutto collettivo, perciò da sola non può elaborare la perdita, e deve farlo ricreando un legame con il vecchio cui aveva fatto la promessa di raccontare in Italia un’altra Storia: è un modo di condividere il dolore con qualcuno che sta al suo fianco e l’aiuta a lenire la ferita.»
Nei tuoi testi attingi alle memorie raccolte offrendo una storia attraversata da emozioni e passioni, con una lingua italiana movimentata dall’uso dell’oralità, contaminata e fecondata da frasi e parole in amarico. Hai raccontato infatti di essere arrivata alla scrittura per la necessità di recuperare l’arte dell’oralità, tanto cara all’Africa, un’esigenza che ha radice nella cultura etiope, “dove si è abituati a vivere e condividere tutto con la comunità”: puoi approfondire il discorso?
«In Etiopia non c’è solo oralità, ma anche una storia scritta antica: ad esempio nelle chiese ci sono carteggi relativi a matrimoni, proprietà, etc… Fino al Novecento, se una donna portava in dote le terre nel matrimonio, e poi si separava, riprendeva le sue proprietà, e tutti i documenti su questi passaggi venivano conservati nelle biblioteche delle chiese, come hanno messo in luce ricerche recenti. Poi c’è la storia genealogica di una famiglia che è orale. E mentre in Italia si condivide solo il ragionamento (è un nutrimento cerebrale che gratta e non ti permette di lasciarti andare), in Etiopia si condividono le narrazioni. La gente è riservata, ma, nello stare insieme, scattano il racconto e la condivisione. E nel libro ho cercato di presentare i racconti delle diverse voci, come in Etiopia.»
Narrare, hai spiegato, nasce per te dal desiderio di condividere l’emozione di un racconto che pulsa ogni volta con ritmo diverso a seconda del rapporto fra narratrice e pubblico. Da qui il ricorso alla messa in scena dei testi da te scritti,dove alterni corpo, musica e parole, coinvolgendo chi guarda a rivisitare la Storia tra realtà ed immaginazione: parlaci delle tue performance ed in particolare del tuo ultimo spettacolo “La Bambina che resta”, presentato a Milano nel settembre scorso.
«All’inizio era un modo di sfuggire alle aspettative che si hanno davanti ad uno scrittore. Io sono stata invitata ai convegni sin dal mio primo racconto pubblicato, e mi sembrava quasi ridicolo che il fatto di avere pubblicato un racconto mi mettesse nella categoria dello “scrittore”, quello da cui ci si aspettano risposte sull’andamento della vita etc… . Mi sentivo tremendamente scomoda nel ruolo che mi volevano affibbiare, così ho deciso che avrei portato i miei lavori sotto un altra forma. Così sono nate le performance. Certo, mi è sempre piaciuto pensare ad una forma di condivisione della scrittura che fosse il poterla riportare all’oralità, anche perché nel mio paese si racconta cantando, scrivendo e raccontando. Però la spinta iniziale non è nata da una riflessione di questo tipo. La mia ultima performance, “La Bambina che resta”, è tratta dal romanzo. Si parla tanto di “carrette del mare”, di “clandestini”, ma non ci si chiede chi sono questi ragazzi che partono, non si pensa alle loro emozioni, alle loro famiglie. Non si pensa che per loro è vietato sognare solo perché sono nati nella parte sbagliata del mondo. Alcuni di loro, come ad esempio il protagonista del mio romanzo, non partono per sfuggire la povertà, ma perché vogliono vivere altrove, fare altre esperienze. Così come i ragazzi che nascono in occidente, con l’unica differenza che per i ragazzi occidentali non ci sono ostacoli mentre per quelli del sud del mondo si. E mi piacerebbe porre una domanda: perché la gente di un pezzettino di mondo può muoversi liberamente e il resto dell’umanità no? Perché solo le madri di un pezzettino di mondo sono autorizzate a sognare futuri gloriosi per i figli, senza paura di morire di fame? È accettabile una disuguaglianza del genere?»
Parlaci dell’importanza della musica per te, visto che ti stai occupando di Atse Tewodros Project con musicisti etiopi in dialogo con jazzisti italiani.
«È un amore grande per la mia gente. Nel 2009 feci in Etiopia una performance dal libro, per sapere come sarei stata accolta. Ho avuto una grande accoglienza. Il che mi ha reso molto felice. Per me era una prova. Alcuni musicisti e poeti che hanno assistito alla performance si sono proposti di scrivermi dei brani di musica etiope, e di aiutarmi anche a recuperare alcuni vecchi canti di guerra. Canti che i patrioti etiopi intonavano contro l’esercito fascista. Poi, a febbraio scorso, nell’anniversario dell’eccidio di Graziani, ho cantato queste canzoni per gli anziani partigiani. All’inizio ho avuto paura. Pensavo a mio padre, che in fondo era un fascista e magari qualcuno poteva alzarsi e dirmene quattro. Invece gli anziani si sono messi a piangere, ed io con loro.»
Gabriella Ghermandi, “All’ombra dei rami sfacciati, carichi di fiori rosso vermiglio”, El-Ghibli, giugno 2004 on line.
Gabriella Ghermandi, “Un canto per mamma Heaven”, Kumà, 9-11, 2005, on line.
Gabriella Ghermandi, “Melkam Amlak, che mal d’Etiopia”, il manifesto, 23.12. 2007.
Gabriella Ghermandi, Regina di fiori e di perle, Donzelli 2007, pp. 264.
Ennio Flaiano, Tempo di uccidere, Rizzoli 1980, pp. 272.
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