Il 14 aprile (a circa una settimana dalle dichiarazioni rilasciate per Letterate Magazine da Nadia El Fani), su Repubblica è apparsa un’intervista ad Amina a cura di Cristiana Mastrandrea. Secondo la testimonianza raccolta dalla giornalista italiana, Amina sarebbe scappata dall’abitazione nella quale la famiglia la teneva prigioniera, somministrandole anche dei pesanti farmaci antidepressivi. Un video, nel quale si vede Amina che parla attraverso skype con la leader del movimento Femen Inna Shevchenko, è stato ugualmente diffuso oggi sul sito di Repubblica. E mentre la giovanissima attivista tunisina, benché provata dalla violenza psicologica a cui è sottoposta, prosegue con risolutezza il suo cammino di libertà, la madre – nel denunciarne la fuga – si ostina a definirla una “malata psichiatrica”, rifiutandole quella dignità che Amina ha voluto fortemente rivendicare, corpore et anima.
A metà marzo, una diciannovenne tunisina che si fa chiamare Amina Tyler, ha postato su Facebook alcune foto che la ritraevano a seno nudo, e che divulgavano attraverso delle scritte sul corpo, slogan quali “il mio corpo appartiene a me e non è l’onore di nessuno” e “al diavolo la vostra morale”. Tale gesto, che ha di fatto segnato la nascita di Femen Tunisia e rotto uno dei tabù della cultura araba, quale l’esibizione del corpo femminile, ha scatenato l’ira degli islamisti, i quali non solo hanno piratato l’account Facebook di Amina, sostituendo foto e contenuti con frasi del Corano, ma l’hanno addirittura minacciata di morte per lapidazione, secondo i precetti della Sharia. Dopo quest’episodio, Amina è sparita nel nulla. Alcuni rumors la vorrebbero rinchiusa in un ospedale psichiatrico, mentre il suo avvocato (l’attivista per i diritti umani Bouchra Bel Haj Hmida, n.d.r.) afferma che si trova in buona salute con la sua famiglia.
Nel frattempo, il movimento Femen ha lanciato la Topless Jihad, che il 4 aprile ha visto mobilizzarsi in sostegno della giovane attivista tunisina, alcuni gruppi di donne in diverse città europee. Una delle più fervide sostenitrici di questa campagna di solidarietà, è stata la regista Nadia El Fani – connazionale di Amina, ma trapiantata in Francia –, a sua volta vittima delle minacce islamiste a causa del film post-rivoluzione Laïcité, inch’Allah (inizialmente intitolato Ni Allah Ni Maître), con il quale ha ironicamente mostrato l’ipocrisia che sottende il Ramadan e rivendicato la laicità dello Stato.
Nadia El Fani che, come Amina, è uno spirito libero, racconta le lotte che lei, Amina, e numerose altre donne, portano avanti in Tunisia, in questo difficile momento di transizione, che vede la democrazia minacciata da un gruppo di salafiti – violenti e retrogradi – vicini al partito islamista Ennahda, attualmente al governo del paese.
Dal tuo blog hai espresso preoccupazione per le sorti di Amina. Hai sue notizie?
«E’ stata rapita, come confermato nell’articolo di Martine Glozat sul magazine Marianne . La stessa Amina racconta di esser stata portata via con la forza mentre era per strada, di esser stata picchiata da suo cugino, che le ha anche sottratto la scheda del cellulare, perché non potesse più avere contatti con l’esterno. In seguito è stata rinchiusa in una casa di famiglia. In un reportage realizzato da Canal Plus, una rete tv francese, l’abbiamo sentita parlare, sembra che sia tornata dai suoi genitori a Tunisi. Nel video si vede il padre, ma con il viso nascosto. Lei dice che non è libera, che vorrebbe venire in Francia. Io credo che la sua famiglia le abbia mentito; le hanno raccontato che durante la dimostrazione del 4 aprile davanti alla moschea di Parigi, le Femen hanno bruciato una bandiera islamica, mentre si trattava di una bandiera salafita. Le hanno anche detto che sui loro corpi c’era scritto “le donne arabe contro l’Islam”. Amina, che credeva invece che le Femen avessero ‘esibito’ il suo nome, ha disapprovato l’azione pensando che attaccasse l’Islam e non l’estremismo islamico».
Amina, dunque, è credente?
«Viene da una famiglia, nella quale – come nella maggior parte delle famiglie tunisine –c’è un po’ di tutto: musulmani praticanti, atei, islamisti radicali, donne velate e non».
Pensi che il suo sia stato un gesto di emulazione del movimento Femen, una provocazione, oppure c’è nelle adolescenti tunisine una reale presa di coscienza e un desiderio di liberazione del proprio corpo?
«Tra i giovani tunisini c’è chi vorrebbe la libertà totale e chi è influenzato dall’islamismo. La nostra è una società in evoluzione, che tenta di ricostruirsi dopo decenni di dittatura. Penso che Amina, in tutte le interviste che ha rilasciato prima del sequestro da parte della sua famiglia, abbia dimostrato di essere una ragazza intelligente e perfettamente consapevole delle sue azioni. In ogni caso, per la legge tunisina, è maggiorenne. E se può esercitare il diritto al voto, significa che può avere un’opinione politica. Ha voluto certamente seguire le Femen, ma credo che questo movimento – che conosco bene e sul quale ho girato un film, Nos seins, nos armes, in collaborazione con Caroline Fourest – sia la nuova Internazionale femminista. Abbiamo visto infatti fino a che punto il gesto di Amina abbia scatenato la solidarietà non solo del mondo arabo e musulmano ma anche di quello occidentale. E’ fantastico quello che è successo».
In sostegno di Amina ti sei fatta fotografare a busto nudo, con degli slogan dipinti sul corpo. Cosa significano le scritte in arabo sulla fronte e sul seno?
«Sulla fronte ho scritto horriya (libertà) e sul seno karama (dignità)».
Che cosa ha rappresentato per te farti fotografare in quella posa, visto che nel 2011 – dopo l’uscita del tuo film Laïcité, inch’Allah – sei stata vittima di caricature che miravano a deformare e offendere il tuo corpo?
Significa mostrare ancora una volta agli islamisti che nessuno ha il diritto di intralciare la libertà altrui. Ciascuna donna è libera di gestire il proprio corpo come meglio crede. E’ un vero peccato che gli islamisiti pensino che il corpo di una donna sia solo sesso, e che per questo debba essere nascosto. Credo che il movimento Femen, in questo senso, abbia dimostrato che servirsi del proprio corpo come una bandiera, per diffondere degli slogan, sia un modo per contrastare questa visione oscurantista».
Hai dei nuovi progetti cinematografici?
«Sì, dopo vari documentari, ho voglia di tornare alla fiction. Sto preparando un lungometraggio, la storia di una giovane tunisina che scappa dal paese per rifugiarsi in Francia a causa della sua omossessualità».
Pensi che in questo momento gli artisti, possano cambiare il corso della storia in Tunisia?
«Credo che gli artisti, così come Amina, il cui gesto considero artistico oltre che politico, siano all’avanguardia di ciò che succede in questo momento in Tunisia e, in ogni caso, l’arte che fa parlare è quella che porta in sé un messaggio di contestazione. Non ho ancora visto espressioni artistiche da parte degli islamisti che possano far onore al nostro paese».
Dopo la pubblicazione della foto a busto nudo in sostegno di Amina, il profilo Facebook di Nadia El Fani è stato bloccato, probabilmente a causa delle segnalazioni degli islamisti. La foto è stata rimossa. Non è la prima volta che la regista tunisina è vittima della censura da parte del social network. Anche in seguito alle polemiche suscitate dal suo film Laïcité, inch’Allah, l’account era stato bloccato.
Estratto del film Laïcité, inch’Allah
Documentario Nos seins, nos armes
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