La poetessa e critica spagnola Fanny Rubio, che per anni ha diretto l’Istituto Cervantes di Roma, non esita a chiamarla “la matriarca dell’ispanismo italiano”, e chi volesse saperne di più su questa figura di intellettuale comunista, troverà molto più materiale e molti più echi del suo magistero, anche politico, in terra di Spagna che qui da noi: nemo propheta in patria.
Ma quell’appellativo credo non sarebbe piaciuto a Rosa Rossi (Torino, 1928 – Roma 2013), così nemica delle gerarchie e dei poteri, così schiva delle ribalte e così amante del lavoro di scavo, così disposta a mettersi sempre all’ascolto, ad andare a caccia delle tracce che rivelano – in un testo, nel linguaggio – tutto il non detto, il senso dei silenzi, tutto ciò che non risponde al canone e che, al contrario, lascia intravedere altre, diverse possibilità. Il ricordo di Fanny Rubio (El País, 11-2-2013) è bellissimo e acuto e centra il punto di originalità che caratterizza il lavoro di Rosa Rossi quando scrive di lei che offre: «un altro tipo di modello interpretativo basato sull’irruzione della storia nel modo di vivere il processo creativo dei classici e nella potenza ribelle contenuta in figure come Cervantes, Juan de la Cruz e Teresa d’Avila». Per questo, dalla Rubio posso accettare quel “matriarca” di cui sopra proprio perché, nei suoi studi ispanistici, Rosa Rossi ha toccato, con un’ottica di genere, tre mostri sacri di una hispanidad tutta escludente, gerarchica e patriarcale, tre icone di una Spagna “Una e cattolica”, inventata e difesa dall’ideologia monarchica e imperiale nel corso dei secoli e viva ancora oggi. Nelle tre figure oggetto di suoi reiterati studi, la Rossi ha riconosciuto l’essenza ribelle e ha denunciato una cultura che li ha ferocemente ridotti – anche nell’esegesi critica – alle norme stabilite dal potere.
Il suo lavoro mette a fuoco con insistenza un problema centrale del XVI secolo spagnolo, quello della purezza di sangue – un assurdo principio escludente che costrinse tutti gli ebrei dell’impero spagnolo o all’espatrio o a conversioni quasi sempre false – e, insieme a questo, il dramma della diversità di cui Chiesa e Stato decretavano l’esclusione, anche con i metodi terribilmente dissuasivi della Santa Inquisizione.
Aveva indirizzato i suoi studi verso una Spagna reietta e stigmatizzata dalla grande cultura europea, dapprima per il disprezzo settecentesco d’oltralpe (que doit on à l’Espagne?), poi per il prevalere ottocentesco dei movimenti letterari provenienti da Germania, Inghilterra o Russia, per i rinnovamenti delle avanguardie, il tutto legato a questioni politiche che mantenevano la penisola iberica lontana dalle traiettorie europee. Ma per Rosa Rossi, invece, fra la cultura italiana e quella spagnola si poteva creare «un rapporto di compenetrazione e scambio, privo delle ombre di sudditanza che si potevano avere per esempio con la cultura francese. E sempre con una feconda oscillazione tra ricerca universitaria e attività creativa». Dunque un territorio in cui poter mettersi a caccia per proporre una lettura, come nota la Rubio, che offra «la gioia di non essere di moda per poter essere letti sempre».
La sua carriera di docente era cominciata a Napoli, dove aveva studiato e poi insegnato al Liceo Umberto, lo stesso di Giorgio Napolitano, di Francesco Rosi, di Mario Martone e di altri illustri ex allievi. A Napoli aveva stretto una grande amicizia con Giulia Adinolfi sulle tracce della quale Rosa Rossi aveva potuto entrare nel cuore della Spagna antifranchista, avendo Giulia sposato il filosofo marxista Manolo Sacristán, insieme al quale fondò e diresse importanti riviste di analisi politica. Fra la fine degli anni Cinquanta e i primissimi anni Sessanta, l’autrice viaggia in Spagna e soggiorna spesso nella Barcellona, resistente e clandestina, della coppia Sacristán. Sulle pagine de Il Contemporaneo, diretto da Antonello Trombadori, Rosa Rossi racconta di una Spagna buia e depressa, della difficile vita culturale, della repressione che ha colpito, fra gli altri, il giovanissimo romanziere Luis Goytisolo, rinchiuso in carcere dalla Guardia Civil.
Il suo ambito è quello del Partito Comunista Italiano e ai suoi mezzi di informazione, e alle sue case editrici, fa riferimento anche per la sua attività docente, che interpreta come un lavoro che ha bisogno assoluto di nuovi strumenti critici e di rinnovare i suoi testi. Molto del suo tempo giovanile, Rosa lo ha speso in questa importante attività di servizio sia quando esercitava come docente al liceo che quando è poi passata all’Università, prima in Sicilia e poi a Roma dove si stabilisce insieme al compagno della sua vita, Renzo Lapiccirella, giovane neurologo che aveva abbandonato la professione per dedicarsi al lavoro nel Pci sull’onda suscitata dall’appello di Togliatti a lavorare fra la gente per aprire quei luoghi di dibattito e di maturazione politica che furono le sezioni del partito. La loro vita in comune si è svolta a Roma, dove Lapiccirella era stato mandato dal Partito prima come archivista alle Frattocchie (la mitica scuola-quadri nei pressi della capitale) e poi come segretario di Luigi Longo, passando per la redazione di Rinascita. Il suo sodalizio con Rosa è durato trentatré anni, fino alla morte di lui nel 1994, ma era cominciato a Napoli, dopo il suicidio di Francesca Spada, madre dei due figli di lui, un avvenimento drammatico che Ermanno Rea ha romanzato nel suo Mistero napoletano. La lettura che Rea fa dell’impegno di Renzo nel Partito non è piaciuto a Rosa che, con grande discrezione, lo ha fatto sapere in una nota al suo Sulle tracce di Cervantes (1997): «Il riferimento a Renzo Lapiccirella che si fa in questo libro nella dedica, e in questo capitolo, non è solo il privato e nostalgico riferimento a colui che è stato compagno della mia vita per trentatré anni, ma vuole essere anche una messa a punto, una correzione del personaggio un po’ tetro di funzionario dissidente del Pci che ha costruito Ermanno Rea in Mistero napoletano, Torino, Einaudi, 1995 [appena un anno dopo la sua morte]».
Alla figura di Renzo, – assai legata alle problematiche di verità e ironia, di rifiuto del potere e di emarginazione che furono anche di Miguel de Cervantes – ci si riferisce tacitamente in più di un passaggio di questo libro. Dieci anni dopo la scomparsa del marito, nel 2004, Rosa gli scrive una lettera che affida alle pagine de l’immaginazione, la rivista pugliese che dirige Anna Grazia D’Oria per l’editore Manni: << […] Ma tu portavi dentro di te un germe, una forza che Ermanno Rea per esempio non è riuscito a captare nel suo per altro meritorio Mistero napoletano, dove si raccontano le tue epiche gesta di comunista democratico, negli anni cinquanta, contro il “despota” Cacciapuoti: portavi dentro di te il fatto di impegnare tutta la tua vita nel Pci, ma non eri marxista-leninista, invece avevi in mente la grande lezione – non solo rispetto al marxismo leninismo ma anche rispetto allo storicismo imperante – del neopositivismo. Le tue letture erano Ayer e Reichenbach […] E’ vero solo quello che può essere empiricamente o logicamente dimostrabile; il resto sono costruzioni ideologiche. Da qui la tua amicizia profonda con Renato Caccioppoli e il tuo immenso dolore per il suo suicidio […] Il primo libro che abbiamo scorso insieme quando abbiamo cominciato a parlarci è stato Il processo antitroskista del 1937, pubblicato a Roma dall’editore Capriotti nel 1946 […]; e questo voleva dire che entrambi sapevamo – in realtà non solo per quel libro – di che pasta era fatto il potere sovietico, il Pcus. […] Renzo, hai saputo fare con me qualcosa che non avevi mai potuto fare con Francesca, la tua prima compagna, che aveva dato la sua adesione al comunismo in modo totale e passionale».
Nel 1973, in un saggio su due intellettuali spagnoli morti suicidi, Mariano José de Larra e Angel Ganivet, la Rossi aveva rivolto un grazie «a Renzo Lapiccirella, che mi ha dato suggerimenti preziosi con la discrezione noncurante di chi non monetizza in nessun senso e in nessun modo la propria intelligenza», disegnandone, così, un prezioso e significativo ritratto.
Per anni la militanza e l’impegno assorbono gran parte delle sue energie; i suoi scritti negli anni Settanta e Ottanta rispecchiano, da una parte, la necessità di “produrre” per l’università e dall’altra quella di dare sfogo alla sua creatività in due romanzi, Una visita di primavera (1979) e L’ultimo capitolo (1984), sul cui sfondo c’è il delitto Moro, con il massacro degli uomini di scorta, che fa intuire una sofferenza dell’autrice che oltrepassa i temi narrati: in Una visita, il contrasto fra una suocera casalinga e saldamente acquietata e adagiata sulle sue tradizioni e una nuora intellettuale e ancora incerta nel disegnare un nuovo ruolo per la donna; mentre in L’ultimo capitolo, un uomo ha perso la sua compagna ed elabora il lutto. Un tema a cui non credo sia estraneo il carteggio mantenuto con Sacristán dopo la morte di Giulia avvenuta nel 1980. C’è anche un libro di racconti sull’infanzia e l‘adolescenza in Puglia, nelle Murge, a completare la produzione creativa della Rossi.
Ritornando agli studi sulla cultura ispanica, nel 1983 scrive Teresa d’Avila. Biografia di una scrittrice, in cui affronta il mistero del suo misticismo, penetra in quel suo «raccogliersi il cuore», cercando di collocarsi nella mente di lei per poterne raccontare quel che la santa racconta facendo in se stessa «una profondissima quiete, un sovrumano silenzio, un grande vuoto». Gli accenti leopardiani di cui si serve Rosa Rossi rivelano il suo scavo intellettuale alla ricerca della permanenza nel tempo e nelle culture, di grandi esperienze spirituali e intellettuali. Ma, come rivela il titolo, è sulla Teresa scrittrice che insiste la studiosa; sul valore salvifico che la santa, di famiglia ebrea convertita, donna, astuta e dimessa allo stesso tempo, scaltra nell’evitare le trappole inquisitoriali, abile nel coltivare utili protezioni, attribuisce alla scrittura. Così come si spende per “costruire” nuovi conventi dell’ordine riformato, non trascura mai di scolpire nella pagina scritta l’esperienza che l’attraversa, affinché ne resti la traccia che aiuterà il critico lettore a ricostruirne la mente e l’esperienza.
Dieci anni dopo la sua biografia di Santa Teresa, la Rossi affronta il suo libro forse più sentito, Giovanni della Croce, solitudine e creatività. Il suo santo è un uomo di statura assi piccola, figlio di una tessitrice miserrima, nato in povertà e in povertà vissuto, che è stato capace di trasformare la solitudine in creatività per lasciarci alcune delle liriche più belle della letteratura universale. In lui Rosa Rossi esalta la «passione per la perdita», la coerenza e la resistenza, la capacità di «perdersi e disgregarsi per poi ritrovarsi a un grado di aggregazione molto più alto».
Dichiaratamente, la Rossi non ha voluto fare di Giovanni della Croce un “santino”, come non ha saputo accontentarsi, a proposito di Cervantes, della sua altissima collocazione nel pantheon dei grandi autori del mondo.
Si è messa sulle sue tracce, convinta che l’autore del Chisciotte doveva per forza aver lasciato segnali di un’esistenza tutta spesa a cercare di affermare la diversità di sangue, di esperienze sessuali, di religione in una Spagna che stava rinnegando la sua tradizione di territorio dalle frontiere permeabili fra le tre culture più importanti del tempo: l’ebrea, la cattolica e l’islamica. In Sulle tracce di Cervantes, la Rossi si azzarda ad ipotizzare una vita sessuale irregolare per l’autore del Chisciotte, forse promiscua, sicuramente non esente dal fascino dell’omosessualità; e non lo fa per mettersi al passo coi tempi, ma per lasciarci intravedere l’arricchimento che può derivare alla nostra cultura e alle nostre conoscenze, da esperienze che sanno oltrepassare i tabù. Con tenacia e coraggio, la nostra ispanista ha tirato giù quei tre classici intoccabili dal loro tabernacolo, e li ha rivoltati nelle immondizie della vita, li ha sporcati col fango della umana miseria per restituirceli arricchiti dalla loro diversità.
Le sue letture di questi tre grandi classici si avvalgono, come lei stessa chiarisce, dell’attenzione «alla cultura materiale e alla differenza sessuale, che a noi viene da decenni di ricerche antropologiche e critiche femministe». Perché del femminismo, Rosa Rossi si era occupata proprio nei caldissimi anni Settanta, ma come è solito in lei, scrivendo un libro abbastanza controcorrente la cui rilettura, oggi, risulta molto stimolante. Le parole delle donne è del 1978 e ha un approccio linguistico che mi aveva sconcertato in una prima lettura fatta in quegli anni e che oggi mi appare assai lungimirante. Del tutto controcorrente in un momento del pensiero femminista che aveva assoluto bisogno di ragionare lontano dalla tradizionale “tutela” del pensiero maschile e che per questo alzava barriere che tenessero lontani i maschi, anche a livello di presenza fisica, Rosa Rossi avverte che «l’ideologia del rifiuto rischia di rinchiudere nel ghetto le minoranze di donne soprattutto giovani, appena uscite dalla metafisica dell’essere donna e dall’oppressione che questo comporta»; il suo ragionamento, che parte, e resta legato, a un’acuta analisi del linguaggio del femminismo di quegli anni, compresi gli slogan più audaci (“Io sono mia”, “Donna è bello”), si radica nella convinzione che l’Altro sia la totalità, il termine in cui scompare la differenza fra uomo e donna e per questo lancia la sua provocazione sulla parola donna invitando a «scrollarcela di dosso, per negarci come donne, accettarci come femmine e affermarci come esseri umani». La parola donna, sostiene la Rossi, discende dalla parola uomo, che la precede e la conforma; uomo è un termine assolutamente culturale che contiene le caratteristiche che ne fanno l’essere pensante liberato dall’animalità. Se non se ne fossero appropriati i maschi, per concedere alle femmine la lateralità della parola donna, anche le femmine possono essere e sono uomo. Rosa Rossi lo dice così: «La verità è che l’unico progetto possibile è quello di “diventare uomo”, come progetto teso a recuperare il massimo di libertà rispetto all’innegabile necessità che il fatto di essere parte della specie umana comporta. […] Perciò la separazione e la contrapposizione della “donna” al maschio, dopo una prima fase comprensibile e forse utile, se irrigidita nel rifiuto e nella rottura del dialogo, condurrebbe irreparabilmente alla sconfitta in primo luogo della donna, che resta la parte più debole, e con lei di ogni prospettiva di una vita diversa. Ed è la politica il terreno dove questo dialogo può e deve svilupparsi».
Ad una giovane collega che le aveva mandato un suo libro, Rosa Rossi aveva scritto mantenendosi sulle generali e senza dimostrare particolare benevolenza, ma in chiusura aveva insinuato un breve commento che conteneva, allo stesso tempo, un sobrio complimento e la constatazione di un principio a cui lei stessa si è sempre mantenuta fedele: «Il suo è un libro con un’idea».
Rosa Rossi:
– Scrivere a Madrid, Editori Riuniti, Roma 1973
– Le parole delle donne, Editori Riuniti, Roma 1978
– Una visita di primavera Editori Riuniti, Roma 1979
– Teresa d’Avila. Biografia di una scrittrice Editori Riuniti, Roma 1993
– L’ultimo capitolo, Lucarini, Roma 1984
– Tra le Murge e il mare, Il Ventaglio, Roma, 1987
– Breve storia della letteratura spagnola, Rizzoli, Milano 1992
– Giovanni della Croce. Solitudine e creatività, Editori Riuniti, Roma 1993
– Sulle tracce di Cervantes, Editori Riuniti, Roma 1997
Mario Di Pinto, Rosa Rossi La letteratura spagnola dal Settecento a oggi, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli Milano, 1993
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