Non si pensa mai abbastanza alle conseguenze sociali di una scoperta scientifica. Per Carl Djerassi, il chimico che per primo sintetizzò, nel 1951, uno steroide da usare come anticoncezionale, il confronto è stato con una rivoluzione sociale di enorme portata, le cui conseguenze sono tuttora in corso. E a differenza di altri, ha avuto più di cinquant’anni per misurarsi con le ricadute della propria scoperta giovanile. Operazione che Djierassi, ebreo di origine bulgara nato a Vienna nel 1923, rifugiato negli Stati Uniti nel 1938, autore di numerose ricerche, docente alla Stanford University, imprenditore di successo e multimilionario, collezionista di Paul Klee e mecenate di artisti, oltre che scrittore e autore di testi teatrali, sostiene con vigore e energia.
Come vede oggi il giovane scienziato che più di cinquant’anni fa sintetizzò in Messico il Norethindrone? Come un salvatore del’umanità? O forse allora era totalmente inconsapevole di quello che stava facendo?
«Di sicuro non inconsapevole. Ma quello a cui puntavamo nel 1951 era un ormone sintetico con le caretteristiche del progesterone naturale, ma che fosse attivo per via orale. A quel tempo il progesterone, per iniezione, era già usato per il trattamento dei disordini mestruali e della sterilità, e si pensava potesse essere usato per curare il cancro alla cervice. Questo era il nostro obiettivo. Che il progesterone fosse anche un contraccettivo naturale era già noto dal 1920, grazie al lavoro dell’austriaco Ludwig Haberlandt».
Quando nel 1960 il Norethindrone fu approvato dal governo americano e divenne a tutti gli effetti la prima Pillola, lei si rese conto che si apriva la porta alla rivoluzione sessuale?
«Credo che nessuno nel 1960 avrebbe potuto anticipare l’estensione e la rapidità con cui le donne avrebbero accolto la Pillola. Come nessuno avrebbe potuto valutare l’estensione della rivoluzione sessuale negli anni sessanta e settanta. Ma gli artefici furono anche la cultura hippie e la cultura della droga, il rock e la scena musicale. E soprattuto il nascere del movimeno di liberazione della donna».
Perché lei pensa che gli scienziati non hanno la responsabilità morale del loro lavoro?
«Non ho mai detto questo. Ho detto che la ricerca di base, cioè la scienza di base, non ha una dimensione etica, perché per definizione non si ha idea di quello che si può scoprire. La dimensione morale e etica diventa importante quando si entra nel campo delle applicazioni. Che naturalmente sono fatte da scienziati, e sempre più spesso da tecnologi, che si dovrebbero assumere la responsabilità morale del loro lavoro».
Una volta lei ha detto: il sesso dovrebbe essere fatto per il piacere, la riproduzione per la riproduzione. È la sua filosofia delle relazioni tra donne e uomini?
«È la filosofia di tutti. Il problema è solo che la gente non vuole ammetterlo. O lei pensa che gli italiani, che hanno 1.1 figli per famiglia, facciano sesso solo una o due volte nella vita, e per il resto vivano casti?»
Perché descrive il 21° secolo come l’epoca del sesso al tempo della riproduzione meccanica?
«Perché è così. Naturalmente solo nei paesi più ricchi. Questo significa che i bambini che nascono sono molto desiderati, cioè molto amati, in genere cemento di famiglie felici. Per questo non ho paura della distruzione della famiglia. Naturalmente questa famiglia può essere – di rado- costituita da due donne, e ancor più raramente, da due uomini».
Una volta ha scritto che solo Shakespeare avrebbe potuto scrivere le sue tragedie. Ma che chiunque altro avrebbe potuto fare il suo lavoro.
Non solo il mio, ma quello di qualunque altro scienziato, incluso Galileo, Newton, Darwin, Einstein …
Che significa, che l’arte è più personale, più individuale della scienza?
«Certo. Inoltre la scienza procede in verticale, ognuno dipende dal lavoro di chi ci ha preceduto. Ma se Galileo non avesse fatto quello che ha fatto, qualcun altro avrebbe fatto le stesse osservazioni nel giro di qualche anno. Nel caso delle ricerche di Watson e Crick sul Dna, è probabile che gli stessi risultati sarebbero arrivati in qualche mese».
Lei era uno scienziato e un imprenditore intossicato di lavoro. Poi è diventato un docente di scienze sociali e uno scrittore di romanzi e teatro. Tutto questo è dovuto alla Pillola?
«Certamente. È il tema della mia autobiografia “Dalla pillola alla penna”, in uscita da Di Rienzo, che in originale si intitola This Man’s Pill, La Pillola di questo uomo. Non nel senso che la Pillola mi appartiene, ma che ha cambiato “questo” uomo. Tra l’altro racconto di come mi resi conto che la politica influenza la scienza e per questo già dagli anni settanta decisi di insegnare “Aspetti biosociali del controllo delle nascite”. Un corso che si rivolgeva a tutti, specialmente a futuri legislatori privi di cultura scientifica».
Carl Djerassi, Dalla pillola alla penna, Di Rienzo 2004, 112 pagine, 10,50 euro
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