La ragazza che tesse le radici

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Adua, l’ultimo romanzo di Igiaba Scego è una riuscita ricostruzione della Storia condivisa da Italia, Somalia, Etiopia: un attraversamento del colonialismo italiano, che dagli anni ’30 del Novecento arriva fino al 2013, tramite le intrecciate vicende dei personaggi principali.

La struttura del testo alterna la narrazione in prima persona di Adua, la protagonista femminile, ai brevi paragrafi intitolati “paternale” nei quali il padre con tono autoritario ed impositivo veicola le regole che impongono a chi nasce femmina il percorso per diventare una donna come si deve, cui segue la storia di Zoppe, il papà di Adua, narrata in terza persona attraverso i frammenti della dura vita di un uomo costretto a subire le sfaccettate violenze del regime coloniale fascista.

Il romanzo di Scego racconta il mancato incontro tra un padre ed una figlia, l’incapacità di trovare un linguaggio comune per trasmettersi affetto, sostegno, reciproca comprensione.

Adua confida ciò che vive all’elefante del Bernini -statua che sostiene l’obelisco di Piazza Santa Maria della Minerva a Roma- al quale in questo modo descrive il rapporto con Zoppe: “Finché è stato vivo l’ho chiamato poco papà.[…] E poi la verità, elefantino, è che non sono mai andata d’accordo con lui. Avevamo caratteri forti, eravamo prime donne, mazzolati dalla vita. Nessuno dava spazio all’altro e tra noi erano inevitabili le scintille. Se alla fine il nostro rapporto era diventato quasi accettabile, all’inizio ci fu una vera guerra tra noi.”

Mi avete sempre descritto come un burbero -pare risponderle Zoppe- Quando stavi sotto il mio tetto eri in carne, bella, robusta come una donna deve essere. E poi ti ho educata. Ti ho educata bene. In questo lurido paese non c’è ragazza educata meglio.”

DSC00085 taglioIl romanzo non affronta solo il legame tra padre e figlia, accomunati dalla morte delle rispettive madri al momento del parto, ma racconta la paternità anche attraverso il legame tra Zoppe e suo padre l’indovino Hagi Safar: il loro magico e visionario incontro è narrato in uno dei capitoli più suggestivi del libro.

Igiaba delinea personaggi complessi, articolati, cangianti, segnati nei corpi dall’impatto con la Storia e lo fa decostruendo stereotipi e semplificazioni.

Zoppe, anch’egli dotato del dono della visione, vive a Roma come traduttore del regime coloniale fascista ma ciò non lo salva dalle violenza fisiche dei suoi sgherri. Fa amicizia con una famiglia ebrea vicina di casa, vittima delle persecuzione causate dalle leggi razziali. Subisce la sottomissione come servo di un perverso conte italiano che lo porta in Etiopia, ma si identifica con l’insubordinazione. “Dovresti ringraziarmi, ti ho dato il nome della prima vittoria africana contro l’imperialismo. Io, tuo padre, stavo dalla parte giusta. E non devi mai credere il contrario.”

Adua sogna il cinema e l’Italia. “Io volevo essere come Norma Jean e basta. Del resto me ne fregavo. Volevo le luci, i premi, i tappeti rossi, i baci appassionati.[…] Nessuno ci aveva mai raccontato che il colonialismo era il male. Anche chi conosceva la verità ha taciuto. Mio padre, ad esempio, ha taciuto. Biascicava frasi, parole così vaghe che non spiegavano, non raccontavano. Ero una ragazzina, non pensavo alle faccende della politica.”

Adua vive disillusioni e violenze di un sistema razzista, elemento che seppur in contesti diversi accomuna la sua esperienza a quella di Zoppe, e sperimenta inoltre la sottomissione riservata alle donne, il maschilismo occidentale che esotizza la bellezza somala rendendola carne da divorare nello svilente e vorace mondo del cinema soft pornografico degli italiani anni ’60-’70.

Nell’intenso romanzo tornano i temi cari alla scrittrice: la centralità dei corpi narrata attraverso l’infibulazione e lo stigma per la sharmuto (puttana), la migrazione odierna, l’incontro tra diversi, i naufragi marini.

Il giovane marito di Adua è un ragazzo sbarcato a Lampedusa, chiamato con ferocia dalla sua comunità Titanic. “Solo quando si arrabbia mi chiama Vecchia Lira. E’ così che i giovani Titanic chiamano le donne della diaspora. Usano nei nostri confronti la stessa violenza che noi usiamo nei loro. Non è bello chiamare un ragazzo che ha rischiato la vita in mare con il nome di una nave che affonda.” Adua accudisce il consorte “così non pensa alle crudeli onde del Mediterraneo che stavano per travolgerlo. Non pensa ai tranquillanti che gli hanno messo nelle zuppe insipide del centro di accoglienza. Non pensa alla ragazza che amava, stuprata e uccisa nel deserto dai libici”.

L’intento di Scego di non analizzare dettagliatamente le epoche storiche trattate – “il colonialismo italiano, la Somalia degli anni ’70 e la nostra attualità che vede il Mediterraneo trasformato in una tomba a cielo aperto per i migranti”- ma trasformarle in emozioni, visioni, vissuti è ben riuscito.

Il romanzo si chiude in Piazza dei Cinquecento, di fronte alla stazione Termini, dedicata ai soldati italiani morti nella battaglia di Dogali del 1897, nell’intento espansionista a danno del popolo eritreo.

In questa piazza Adua vive un simbolica rinascita dalle varie forme di schiavitù subite, la possibilità di narrarsi in prima persona, di partire da sé per raccontare la sua storia, ritrovando una forza combattiva grazie anche al sostegno dalla sua amica Lul. Che, se l’avesse incontrata prima, “mi avrebbe evitato la pena di titoli come La bollente fighetta nera.[…] Se ci fosse stata Lul mi avrebbe trascinato in piazza tra le donne che stavano manifestando per il diritto all’aborto e mi avrebbe fatto capire che quelle donne combattevano anche per i miei diritti, per liberare il mio corpo dai desideri bavosi di una società al collasso.[…] Lul mi avrebbe proibito l’uso delle creme sbiancanti,… si sarebbe opposta come una fiera all’allisciamento dei miei capelli.[…] E poi se ci fosse stata Lul mi avrebbe insegnato ad essere orgogliosa di me stessa. Mi avrebbe salmodiato il mio albero genealogico, come se fosse una poesia in endecasillabi e mi avrebbe poi detto: “tu sei nata dalle ossa di questi antenati, non ti dimenticare le loro ossa, la tua radice”.

Igiaba Scego con Adua ci ricorda le origini comuni, le vicende passate dove nascono le tragedie presenti, il legame tra colonialismo e migrazioni, confermando l’impegno politico letterario attraverso narrazioni che riempiono di storie e significato avvenimenti che ci riguardano, sollecitando riflessioni e spingendoci in azioni atte a creare luoghi materiali e simbolici di accoglienza, confronto e condivisione.

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Igiaba Scego, AduaGiunti, 2015, 192 pagine, 13 euro

link correlati:

Estratto del romanzo 

Intervista all’autrice al Festivaletteratura di Mantova 

Videopresentazione dell’autrice 

Recensione di Susanna Trossero su Graphomania 

Recensione di Giovanna Manna su Tutto per lei 

Articoli di Igiaba Scego su Internazionale 

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