Una storia russa e l'asino Belisario

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la tua presenza“Questa è, a tutti gli effetti, una storia russa e le storie russe, salvo poche eccezioni, non sono mere passeggiate nei viali tranquilli di uno Tsarskoe Selo, ma sono spesso dei passaggi accidentati nei vicoli maleodoranti di un Tambov o di un’Odessa, punteggiati qua e là da qualche cadavere, sopra o sotto i ponti, dentro o sotto i treni. Fin qui non mi sembra di aver lesinato molto in fatto di morti, ma della morte più importante e dolorosa avrei già dovuto parlarne. Nutrivo che alla decomposizione fosse possibile togliere il prefisso de e con la sola composizione poter tessere trame diverse, con le quali rivestire piccole e fragili ossa umane, farle camminare come dei piccoli Lazzari e reinventare così la classica storia russa della caduta e della resurrezione. Ma ho scoperto presto che, russa o non russa, è una storia, questa, di illusorie trame tessute e sciolte, ritessute e risciolte, che si protrae miseramente da millenni e che non avrà forse fine”.

E’ racchiusa in queste dense righe il senso del romanzo di Ruska Jorjoliani il cui titolo La tua presenza è come una città, è tratto da un verso di Pasternak posto in esergo. Le incontriamo a pag 105, poco prima della fine, e svelano il segreto di una storia che assume a tratti i connotati del giallo, ora della fiaba, popolata da una folla di personaggi: Olesia dei boschi per esempio, creatura immaginaria o forse realmente esistita, che dipinge “le donne che impugnano armi taglienti per cambiare il mondo”; o due zoologhi – n. 1 e n. 2 – impegnati in un surreale dialogo tra i ghiacci della Siberia. Una storia ad incastro, composta da quattro lettere e diversi commenti alle lettere, e da numerosi elenchi di oggetti – Una Tkarev TT-33; Un fazzoletto bianco con una piccola macchia di sangue a forma di uccello; La tessera del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. E ancora: “Una campana di bronzo pesante circa 497 kg, vecchia di cinque secoli” con una invocazione scritta sul bordo interno; un paio di occhiali con la montatura di corno e legno fatta a mano; una scacchiera di cartone; un paio di scarpe di camoscio blu “inadatte, ingombranti, troppo pulite”; un taccuino speciale foderato di pelle nera dove il proprietario disegna i suoi sogni, insieme alle tesi per un nuovo “socialismo gentile o della grazia”. Sullo sfondo le lunghe passeggiate all’orto botanico “che è una meraviglia in autunno”.

Sono tasselli che compongono un puzzle “tessuto e sciolto, ritessuto e risciolto”, del quale solo alla fine si avrà una visione completa, ma non definitiva. “Romanzo umoristico, geniale” che Nabokov avrebbe probabilmente titolato Manuale della scemenza russa, come annota la stessa scrittrice, nata in Georgia nel 1985, e trasferitasi a Palermo (dove tuttora vive e frequenta il corso per la laurea magistrale in filosofia) nel 2007, col visto turistico, a seguito del progetto   lanciato dal comune per ospitare in famiglie i bambini di Tiblisi dopo la spaventosa pulizia etnica che colpì l’Abkhazia, regione della Georgia dichiaratasi indipendente dopo la fine dell’Impero sovietico.

Il romanzo, uno “sguardo a distanza” su cento anni di storia russa, scritto con perfetta padronanza della lingua italiana, potente e al contempo leggiadro, è costruito su diversi piani temporali attraverso le vicende personali e familiari di tre generazioni di russi, e narrato per voce di Sasa Viktorovic Almasov “guardiano di libri presso la biblioteca Lenin, poi chiamata Solzenicyn, a Miroslav, citta della provincia di Rjazan.

Sasa è amico d’infanzia di Kirill, figlio di Dimitri Gavrilovic Florensov, insegnante di letteratura russa, a sua volta amico di Victor Bulatovic, padre di Sasa e di professione ingegnere. Viktor da bravo “costruttore e distruttore di ponti” crede fermamente nella rivoluzione, e in circostanze poco chiare denuncia l’amico Dimitri che non ci crede, vede intorno a sé solo “un mondo abitato da simulacri”, e davanti ai suoi alunni ha fatto volare dalla finestra il ritratto 20 x 30 del compagno Lenin, appeso in modo inappropriato tra il ritratto “di Turgenev e quello di Cekhov, i suoi due scrittori preferiti”. Dimitri finirà in Siberia, nelle isole Solovki, e Viktor, sposato e con un figlio, assalito probabilmente dai sensi di colpa, si porta a casa la moglie di Dimitri, Sosanna “una ragazza ebrea non particolarmente loquace”, e il figlio Kirill, che porta il nome del nonno morto impiccato. Kirill, che vuole fare il poeta, e Sasa, entrambi “eroi di nessun tempo, né del nostro, né tanto meno del loro”, cresceranno come fratelli ricalcando le orme dei padri. Sasa lo incontriamo a pagina 17 che scrive lettere a Kirill, anche lui confinato nella “temuta Siberia” per una bravata universitaria. Le lettere, si scoprirà, sono false, “scopiazzate dagli svariati epistolari della letteratura russa” di cui sono pieni gli scaffali della biblioteca Solzenicyn. Questa in sintesi la complicata, ironica, assurda e travolgente “storia russa”, piena di metafore – “che è forse ciò che si nasconde dietro la metafora a contare, più della storia stessa”. La motivazione del perché le lettere sono false, è tutta da scoprire leggendo fino all’ultima riga componendo e scomponendo personaggi, animali e oggetti – dei tòpoi letterari – in modo che s’incastrino nel modo appropriato, e niente rimanga “impunito”.

Tra i personaggi della storia c’è anche Belisario, l’asino. Che ci fa un asino in Russia, mi sono chiesta.

Insospettita dalle numerose descrizioni, nel testo, delle passeggiate dentro l’orto botanico, una delle meraviglie di Palermo, soprattutto in autunno, ho chiesto all’autrice se Palermo ha avuto un ruolo nella composizione del suo sguardo a distanza. E questa è la sua risposta:

«Più che Palermo è stata la lingua italiana a catapultarmi in un terreno fertile e imparziale della letterarietà che è capace di confrontarsi con il passato. La scelta dell’ambientazione nella Russia sovietica porta questa cifra: io che sono georgiana ho scelto di non ambientare la mia storia in Georgia, un po’ per eludere non poche insidie dell’autobiografismo, ma soprattutto per potere misurarmi con il demone del nostro passato comune, le scelte condivise o imposte, la storia di amicizie e ostilità alterne, vecchia più di due secoli ormai, tra la Georgia e la Russia.  Come avrei dovuto affrontare una storia così densa e tragica, individuale e anche un po’ universale, di una vita frantumata in più pezzi? da una parte la Georgia, sempre più piccola e indifesa, dall’altra l’immensa Russia con la sua aggressione e la sua grande letteratura che leggevo mentre ci piovevano addosso proiettili di quegli stessi russi che avevano scritto “Guerra e pace” e “Le anime morte”. E poi è apparsa l’Italia, come un’improvvisa illuminazione, come una risposta.  Non si possono mettere assieme i pezzi se non in un luogo altro, aperto, con una visuale a raggio più ampio, e trovando un filo d’oro che possa attraversare tutto, combinando i pezzi e dando un quadro d’insieme. Questo filo d’oro per me è stato l’italiano, la letteratura italiana, la vena immaginativa che le è intrinseca. E fu così che ho capito che una delle poche risposte alla barbarie e alla sopraffazione è la letteratura, l’immaginazione. E poi c’era il Sud: lo spazio, l’humus di tutte le storie da me vissute o immaginate, il che a volte è la stessa cosa. La Sicilia con la sua eredità di saggezze di tutti i popoli che l’hanno attraversata è stata la mia salvezza. Secondo Bufalino “nei paesi del Sud non c’è verità che non somigli a una fiaba, né fiaba che non sia verità”. Forse ho fatto proprio questo: ho trasformato la verità, il dolore vero, in una fiaba (e le ho dedicato un intero capitolo, per non dire tutto il romanzo). E c’è anche il testimone di tutto questo: l’asino Belisario. Un animale molto raro per la Russia ma non per la Georgia o la Sicilia, è pensato come un’apparizione, un’incursione, un simbolo del Sud e di tutto ciò che esso svela e salva. E dell’afflato dei russi (così palpabile in letteratura ma anche in altro) verso il mare, verso, appunto, il Sud (la Georgia è stato il sud dell’Impero zarista prima e dell’Urss dopo) questo romanzo porta tutti i segni. Poiché della sua epicità, del suo calore, della verità fiabesca che alla fine non è altro che la vita, del cuore palpitante del Sud, ne abbiamo tutti bisogno».

Ruska Jorjoliani, La tua presenza è come una città, Corrimano Edizioni, Palermo 2016, pag. 169, euro14.

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