L'insostenibile differenza di genere

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img.phpAlcuni giorni fa, sulla prima pagina de La Repubblica, compariva a firma di Guido Ceronetti un articolo a commento del governo appena formato da otto ministre donne e altrettanti uomini nel rispetto di quell’esotico principio che è la democrazia paritaria, ancor oggi ridotta e storpiata in “quote rosa”. ( E se seguissimo la provocazione di Chiara Saraceno di parlare di “quote azzurre” per evocare la smisurata, eccessiva e senza dubbio prevalente presenza di uomini nel Parlamento italiano? La questione avrebbe potuto essere così riassunta il giorno dopo sui giornali nazionali: “La lobby maschile delle quote riesce a difendere ancora una volta il suo 70 per cento”).

Nel consigliare al “giovane Presidente del Consiglio” di leggere i suoi Poemi del Gineceo, il poeta e filosofo torinese definiva quella scelta come un “gineceo-matroneo”. E poco più avanti, il nostro indiscutibilmente raffinato intellettuale affermava: “Durerà fino alla fine del mondo l’inegualità (e non differenza, si badi bene) dei sessi, le leggi della natura non le abbiamo fatte noi, legislatori dell’Inutile, brancicanti nel buio”. E dopo aver ribadito l’inevolvibilità dei generi, dati evidentemente da sempre e per sempre in natura e non in cultura, Ceronetti lanciava il suo lamento: “Non sappiamo neppure come chiamarli, i ministri-donne”, scriveva dolente, avendole per la verità già chiamate, giacché aveva scelto di declinare tanto il verbo quanto il sostantivo che ne definiva la carica al maschile, e apponendo infine quel “donne” per ribadire l’irregolarità del soggetto in questione. “La grammatica vorrebbe il rispetto del genere, ma ministra è brutto come uno sfregio”, concludeva sdegnato.

Brutto, dunque, non nuovo o inconsueto: ministra, come d’altra parte avvocata o sindaca o assessora, risulta, pare, esteticamente intollerabile. Né suscita alcun pensiero il fatto che tutti i sostantivi passibili di riprovazione da parte dei puristi della lingua definiscano professioni o posizioni dalle quali le donne erano escluse fino a pochi decenni fa. E come mai, allora, Susanna Camusso, giunta al vertice della CGIL si definisce e viene definita “Segretario”? In questo caso alla desinenza femminile, prevista dal vocabolario e in uso da sempre, viene preferita quella maschile, giacché il sostantivo quando definisce un mestiere, di servizio guarda caso, svolto tradizionalmente dalle donne ha tutt’altro significato, per esempio una valenza che suonerebbe come diminutio di un ruolo di potere.

Tutt’altro che una questione estetica, dunque, e tantomeno grammaticale: semmai ideologica e politica, come si sostiene in un utilissimo quanto delizioso libro dedicato al tema, Il direttore in bikini, scritto da Francesca Mandelli e Bettina Müller che, storiche di formazione e giornaliste della Radiotelevisione Svizzera di lingua italiana, hanno avuto modo di misurarsi quotidianamente sulle scelte linguistiche di genere nel lessico dell’informazione, e oggi possono orgogliosamente affermare che nelle loro redazioni lemmi come sindaca, assessora, ministra o avvocata sono entrate a far parte dell’uso comune.

“Il procuratore pubblico Carla Manni è scivolato sul pavimento bagnato del tribunale. Il personale di pulizia gli ha porto le scuse”, è uno dei tanti esempi del libro, per contestare agli esteti della lingua la “cacofonia creata fra genere referenziale (femminile, ma introdotto da una carica maschile) e genere grammaticale.” Per non parlare di certi titoli di indubbio effetto comico come: “Il marito è indagato, si dimette l’assessore regionale”  o “Paghi i danni al Comune. Ma è il marito del sindaco.”

E’ da almeno gli anni Settanta che si riflette sul rapporto tra linguaggio, a proposito dell’universale maschile interiorizzato come universale neutro, e i modelli, gli stereotipi, gli immaginari e le costruzioni identitarie che ne derivano. Tanto che oggi potremmo affermare che la lingua è l’ultimo vero grande tabù. La lingua, infatti, il suo uso, i suoi significati e la sua dimensione culturale e politica, per quanto possa apparire paradossale e certamente lo è, non riesce a diventare discorso. Restando sempre in bilico tra tentativi di sperimentare parole proibite e desinenze inedite da una parte, e la derisione  o il rifiuto dall’altra.

Tutte e tutti sappiamo che solo quando possiamo nominare le cose, queste esistono, eppure qualunque tentativo di restituire alla lingua un genere trova resistenza nella diffusissima convinzione che questa non possa essere ripensata alla luce dell’affermazione (ormai secolare) di soggettività diverse dal maschile. E sarebbe straordinariamente interessante riflettere sul perché dopo decenni dalla comparsa sulla scena del mondo di notaie e magistrate, scrittrici e registe, ricercatrici e assessore, non solo gli uomini, ma anche le donne non possono e non vogliono declinare al femminile i nomi che ne definiscono la dimensione pubblica, professionale o politica che sia. Come se fosse sì possibile un’affermazione individuale, ma la definizione invece, quella che sancisce l’appartenenza a un genere, risultasse impedita dalla mancanza di orgoglio, da un residuo di vergogna sociale che rende ai propri stessi occhi più credibile un’architetta che si firma “architetto” o più autorevole una segretaria che si definisce “segretario”.

Francesca Mandelli e Bettina Müller, Il direttore in bikini (e altri scivoloni linguistici tra femminile e maschile), con disegni di Pat Carra. Prefazione di Alina Marazzi, Edizioni Casagrande, Bellinzona 2013, 83 pagine, 14 euro.

 

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