Porci con le ali di Lidia Ravera
Sono come una vergine che, deflorata contro la sua volontà, raggiunge subito un fantastico orgasmo multiplo, e diventa, immediatamente, l’acclamata play-mate dell’ anno. E’ andata esattamente così, con il mio esordio letterario. Io non volevo scrivere un romanzo, volevo scrivere un documento politico-culturale (ohibò).
Non volevo pubblicarlo, avessi avuto soldi abbastanza l’avrei ciclostilato. Non l’ho nemmeno scritto da sola, anche se da sola l’ho concepito e impostato.
Non l’ho firmato, né l’ha firmato il mio co-autore.Doveva essere un prontuario per il corretto uso di una sessualità liberata. Un po’ di Laing, un pizzico di Reich, una noce di Marcuse. Frullare il tutto e servire freddo ai fratelli minori. Io avevo 25 anni, il mio coautore 27, anche se sembrava molto più vecchio di me ( infatti è morto 20 anni fa mentre io sono ancora qui, viva e scrivente). In copertina abbiamo messo i nomi dei protagonisti, Rocco lui, Antonia io.
Abbiamo deciso di scrivere quel vademecum sessual-rivoluzionario per adolescenti sotto forma di diario a due voci, lui e lei, per rendere la lettura più gradevole ( meno pallosa, come ci si esprimeva nel lodevole intento di abbassare tutto). Io, in realtà, aveva già scritto dozzine di romanzi abortiti, adoravo la letteratura con punte di fanatismo e non facevo che leggere romanzi dall’età di 11 anni ( il primo rapporto con la letteratura “da grandi” risale alla prima media: sono letteralmente impazzita per “L’idiota” di F.Dostoevskij). Lui, Rocco, cioè Marco Lombardo Radice, era psichiatra e già lavorava, ma anche lui era ragazzo colto.
Eppure, tutti e due, scrivemmo un’opera letteraria ( non la leggerebbero, discutendone e accalorandosi, ancora adesso, 34 anni dopo, se fosse stato una cazzatina politico-culturale) di nascosto da noi stessi.
La pubblicazione fu la cosa più facile del mondo.
Io mi ero appena accaparrata la direzione ( per zero lire, of course) di una collana che aveva lo stesso titolo di un giornalino fondato da me a 20 anni, quando ancora abitavo a Milano, “Il pane e le rose” , presso il Piccolo Editore di Sinistra ( Pes), Giulio Savelli.
La collana doveva allineare testi utili agli adolescenti per meglio vivere e “politicizzare” la loro condizione ( di adolescenti, appunto).
Il primo titolo, va da sé, fu “Porci con le ali”.
Il prezzo di copertina era 2500 lire.
Io e Marco ci dividemmo un anticipo di 100 mila lire( 50 a lui e 50 a me).
Il libro fu scritto in meno di un mese.
Ogni capitolo prevedeva, sullo stesso evento, il punto di vista di lui e il punto di vista lei.
Io raccolsi i pezzi di Marco, e feci l’editing del tutto. Titoli dei capitoli, tagli, migliorie.
Poi, una mattina del giugno 1976, portai la copia unica, battuta a macchina con una Olivetti Valentina rossa e corretta con la biro, in casa editrice.
Tre stanze a via Cicerone.
Mi ricordo che tutti mi trattavano abbastanza male. Si usava così.
Mi ricordo che a una certo punto la copia unica era sparita e serpeggiava l’agitazione.
Mi ricordo che andai a fare pipì in un angusto bagnetto odoroso di scope sporche e candeggina.
Mi ricordo che vidi un angolo della mia copia unica spuntare dal cestino della spazzatura.
Qualcuno, forse toccato dall’incipit nelle sue interne censure, l’aveva buttato via.
( ve lo ricordate l’incipit? “Cazzo.Cazzo cazzo cazzo. Figa fregna. Tutta puzzarella.Figa di puttanella”)
Ripulii le pagine tormentate dalle macchie e le portai all’editore, Dino Audino, belloccio e sprezzante, qualche anno più vecchio di me. E decisamente antipatico.
Il libro andò in stampa.
E io partii per la Sardegna con Annalisa Usai ( autrice con Giaime Pintor di una bizzarra e teoricissima post-fazione sparita dalle moltissime ri-edizioni).
Il giorno dopo l’uscita, mi pare fossero i primi di luglio, un articolo di Giuliano Zincone sulla prima pagina del Corriere della Sera, non certo stimolato dalla casa editrice come accade oggi,ne decretò il successo.
Le mille copie della prima edizione sparirono in un pomeriggio.
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Nasco negli anni cinquanta, a Torino, e già questo è abbastanza grave. A sette anni, alla scuola elementare Manzoni, registro il mio primo successo letterario. La maestra appende il “pensierino” alla parete, in corridoio. Le bambine delle altre classi vanno a leggerlo.Una quindicina d’anni dopo arriva “Porci con le ali” di cui tutti sanno tutto: due milioni e mezzo di copie vendute in 30 anni. Traduzioni estere, polemiche a non finire, etichette. Un successo non cercato, non goduto, male assorbito. Comunque ininfluente. Le sicurezze si formano prima, se si formano. Valeva di più il pensierino appeso al muro. Ma chi se lo ricorda. Scrivo da quando ho memoria, scrivo per mantenerla, la memoria, l’attenzione, qualcosa di vigile. Scrivo per sorvegliare lo svolgimento della vita. La mia, quella degli altri. Se non scrivessi sarebbe un bel guaio. La mia professione si snoda in 18 opere, per così dire, narrative e una sessantina di sceneggiature. Le opere sono:“Porci con le ali” (ed. Savelli 1976), “Ammazzare il tempo” (Mondadori, 1978), “Bambino mio” (Bompiani, 1979)?(queste tre possiamo chiamarle: una trilogia autobiografica. Ma l’autobiografia è collettiva: la liberazione sessuale, costi e benefici. La fatica di crescere. La maternità, che mette finalmente un punto fermo al primo amore, che è, come è noto, l’amore incondizionato per sé stessi)“Bagna i fiori e aspettami” (1986), “Se lo dico perdo l’America“, due romanzi per ragazze, secondo le intenzioni. Il secondo sequel del primo. L’idea è riscrivere “Piccole donne” della Alcott, farle vivere negli anni ottanta. Una pausa.
Ritorno alle cose serie con “Per Funghi” (Theoria). “Voi Grandi” (Theoria, una piccola casa editrice bellissima, dove amano la parola. Nascono lì Lodoli, Veronesi, Petrignani… fra i migliori scrittori italiani). La biografia generazionale continua: trentenni in crisi di disamore. E un thriler psicologico sul cadavere nell’armadio della mia generazione: il terrorismo. Sempre visto in un ottica privata. Siamo alla fine degli anni ottanta. Negli anni novanta pubblico: “Due volte vent’anni” (Rizzoli), tre romanzi brevi. “Ravera: i miei quarantenni sull’orlo di una crisi di nervi”, titola La stampa, una recensione di Mirella Serri. Io dico, nell’intervista: “Negli anni settanta si avevano delle certezze che adesso sono scomparse. Siamo sicuri soltanto di quello che è sbagliato. Abbiamo una sola qualità:sappiamo non fingere, sappiamo stare a disagio nel mondo”. “In Quale nascondiglio del cuore” (Mondadori): lettera aperta a un figlio adolescente (la scrivo con mio figlio tredicenne. Gli dico tutto quello che gli devo dire prima di tacere, prima di fare quel passo indietro necessario a lasciar andar via i bambini). “Sorelle“, una trilogia di nuovo, tre romanzi brevi. Sorelline, Sorellastre e Sorelle. Sorelle, scritto dopo la morte precoce della mia unica e adorata sorella maggiore, diventerà uno spettacolo teatrale. “Nessuno al suo posto” (Mondadori). Storia di un ragazzino di 14 anni che, morto il padre, vorrebbe stare con la donna di suo padre e invece viene deportato a vivere con i parenti di sangue. Madre e nonna. Perché la burocrazia del sangue funziona così. Il romanzo diventa un film per la televisione, qualche anno dopo. “Né giovani né vecchi” (Mondadori): un saggio sulle età della vita. Come scivolano, come si allungano… come le abitiamo a disagio. Come tutti cercano di evitare l’ultima, la vecchiaia. “I compiti delle vacanze” (Mondadori), tre romanzi brevi. Estati, fughe, viaggi senza ritorno.“Maledetta gioventù“(Mondadori), romanzo, chiude gli anni novanta. Nel 2000 entro con il terribile, grottesco, e alquanto defintivo “La festa è finita“(Mondadori): dove liquido senza pietà gli ex-sognatori di un mondo migliore. Le loro presenti pigrizie, memorie, vigliaccherie. Seguono: “Il freddo dentro” (Rizzoli): indagine letteraria sulla giovane assassina Erika de Nardo, sul suo delitto atroce e insensato. “In fondo a sinistra” (Melampo), scritti e racconti d’occasione. A tema politico. “Eterna Ragazza“ (Rizzoli): dove, finalmente, mi misuro con una storia d’amore classica. E ne esce, malgrè moi, un noir.
Ho tralasciato quello che si poteva tralasciare.?Per adesso: il catalogo è questo. Uffà. Il mio curriculum è una cosa infinita.?La mia vita è troppo lunga. O troppo attiva.?O tutte e due le cose…
Lidia Ravera
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