Scrive Eve Ensler, nell’introduzione al suo libro Se non ora quando? Contro la violenza e per la dignità delle donne che «abbiamo bisogno di scrittori in quest’epoca terribile di inganni, manipolazioni […]. Non abbiamo molti veri leader, non abbiamo molti politici di cui poterci fidare. Ma possiamo fidarci degli scrittori. Invece di venderci qualcosa, esplorano qualcosa, invece di dominarci, ci aprono la mente; invece di conquistare o detenere una posizione, ci invitano a fare domande».
È difficile scrivere della violenza di genere. Le donne vorrebbero dimenticare, più che far risalire alla coscienza un dolore troppo complesso, che chiama in causa l’identità, l’autostima, il senso dei legami famigliari, la rappresentazione simbolica di sé.
Forse solo ora, dopo anni di lotte, esse sono pronte ad ascoltare questo dolore e a dargli voce, superando i sentimenti che finora le hanno bloccate: l’amore, il senso di colpa e la paura. L’amore, perché sono quasi sempre famigliari gli uomini che usano violenza alle donne, senso di colpa per sentirsi paradossalmente quasi responsabili di ciò che avviene nelle persone che più amano, quei “rosati infanti” (Maleti) di un tempo, paura per ciò che non può essere detto a parole, l’ancora indicibile.
Queste poesie sono il primo passo per dare voce simbolica all’indicibile. Rendono visibile una violenza tanto più cieca perché non eccezionale, ma quotidiana, comune, consumata tra il decoro delle pareti domestiche o nei luoghi di lavoro, nei rapporti di ogni giorno.
Il silenzio delle vittime è stato infranto da quelle che per prime hanno trovato il coraggio di parlare. Il femminicidio è l’olocausto del nostro tempo, come lo è stato nei tempi passati, ma non è più invisibile, relegato alla periferia delle nostre vite. I poeti devono parlare di questo. Le poete lo stanno già facendo. Scorrendo questi testi si percepiscono nuclei tematici forti: il filo rosso della violenza del potere che attraversa le epoche e tutte le guerre: “i corpi destinati al massacro” (Turroni) riflessi nella “pupilla interiore/della vedova del soldato” (Farabbi), la violenza consumata all’interno dei rapporti d’amore e di quelli famigliari, l’indicibilità, la mancanza di parole per raccontare (Vezzali), la prostituzione (Poluzzi, Falk), la schiavitù delle donne straniere costrette a prostituirsi (Serra), la violenza dei padri massacratori (Mladic, Pinochet), l’assassinio delle donne musulmane che “disonorano” la famiglia, le pratiche violente come l’escissione (Turroni), il senso del lutto che tutte ci portiamo dentro: “tutte noi donne siamo in lutto” (Gatti), il doppio legame fra chi si fa vittima e chi carnefice (Carbone, Rovigatti).
Ma c’è anche, all’inverso, “un nucleo di resistenza sacro/ eredità lasciata dalla madre” (De Gregorio) che le donne vogliono testimoniare, perché “le donne a questo servono/ a ritardare la barbarie” (Quintavalla), nella forza di una solidarietà che vive attraverso le generazioni, nell’eredità che nutre “la figlia di mia figlia, le figlie delle figlie” (Macchia), “la lunga catena delle madri/ che ti partorì” (Roberti), “le altre/ l’insostituibile da cui si proviene” (Marchionni), con la potenza di un femminile che preme “nell’angolo più buio/della nostra dimora-anima/guizzante coda di Lupa – Selvaggia” (Parenti Castelli), quando tu, altro da me, “temi la mia forza” (Zoli).
“Queste cose/non si possono raccontare” scrive Maddalena Capalbi, “tanto dolore accumulato/ grida” dice Passannanti, rompendo l’afasia, quel “fiato fragile” che “nega tutte le bocche della terra” (Vezzali), la sofferenza dei processi e dei tribunali (Cimatti) e proprio per rompere il silenzio Nadia Agustoni mette al centro l’assuefazione cui ci costringe un certo tipo di comunicazione mediatica: “la libertà ha nascosto/genocidi nei telegiornali”, così come si parla di aborto selettivo delle figlie femmine (Biagini), di donne che ardono come torce, “un’altra torcia, che avvampa nel buio” (Dharker) o vengono uccise da famigliari che si considerano disonorati dalla loro libertà (Raimondi), del dolore delle Madri di Plaza de Mayo o delle giornaliste uccise perché testimoni (Dughero, Musetti), dell’indignazione delle figlie degli sterminatori (Zara Finzi).
Il corpo parla, detta la propria legge, scrive Silvia Molesini: “Intero, il corpo, ha il suo dominio/è legge, e cos’è scambia/con quello che difende./O quel che scaccia”. Il corpo violato all’interno della famiglia è il soggetto più frequente, tanto delle poesie di Alessandra Carnaroli, Dina Basso, Narda Fattori, Viola Amarelli, Azzurra De Paola, Marinella Polidori, quanto di altre che piangono la morte di giovanissime donne (Anna Maria Ferramosca e Lucianna Argentino) o assistono impotenti alla violenta alienazione dei legami di sangue (Calandrone) in una crescita esponenziale che dalla violenza iniziale attraversa le generazioni.
Attraverso le forme liriche, il poemetto, il lamento funebre, il richiamo al mito, le forme chiuse o aperte, la riscrittura, l’invettiva o l’ironia, le poete qui presenti vogliono testimoniare la volontà di non stare a guardare, di poter affermare anche con i fatti che costruire un futuro diverso, nuovo, non-violento, per sé e per i figli, oggi è possibile.
Cuore di preda, a cura di Loredana Magazzeni CFR 2012 160 pagine, 13 euro
PUOI SEGUIRE LA SIL SU:





PASSAPAROLA: