Le parole che dicono il femminicidio

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L’ho uccisa perché l’amavo, scritto da Michela Murgia e Loredana Lipperini, è stato pubblicato in questi giorni per la collana Idòla di Laterza. Come per tutti i titoli della collana anche questo racconta di una «falsa certezza», di baconiana memoria eppure fin troppo attuale.

Perché le false certezze sono abiti del pensiero che si tramandano principalmente attraverso la comunicazione e la narrazione e possono assumere, nel tempo, la forma di verità incontrovertibili. Murgia e Lipperini ci consegnano un libro agile e preciso che si legge con altrettanta rapidità sul tema del femminicidio e della violenza contro le donne.

La tesi di fondo prende avvio proprio dal titolo, ovvero da quell’assunto – offertoci principalmente dai media e dal senso comune – secondo cui le donne uccise da mano maschile muoiono all’interno di una relazione amorosa, più o meno deteriorata. La falsa certezza tuttavia non è un’opinione affidata ad un immaginario costruito senza responsabilità e puramente acritico; la falsità è piuttosto frutto di una manipolazione pervicace e costante che, in questo specifico caso, viene giocata sul corpo delle donne.

L’ho uccisa perché l’amavo (falso!) è una minuta fenomenologia a metà strada tra l’inchiesta giornalistica e la riflessione letteraria, tesa appunto al presentarsi di cronache, immagini, significati e retaggi che appartengono alla contemporaneità. Questa contaminazione, ricca di inserti che vanno dal cinema alla musica passando per i classici della letteratura, viene misurata abilmente da Murgia e Lipperini. Da qui emerge il nocciolo della questione: il femminicidio, ovvero l’uccisione delle donne in quanto donne (vero!). In prima istanza e senza panegirici, Murgia e Lipperini auspicano un apprendistato al linguaggio, il ritorno cioè alle parole nella loro corrispondenza alle cose (e ai significati). Trovare le parole, e in alcuni casi riappropriarsene, è importante giacché è da lì che può cominciare una presa d’atto su qualcosa che si stenta a definire fenomeno sociale ma che – nell’esteriorità – lo è (almeno se considerato sociologicamente): il femminicidio. Secondo le autrici, anzitutto ci si deve mettere d’accordo sul termine, ancora indigesto per molte e molti ma efficace e veritiero se lo si considera per quel che è.

Nel 2012 le donne uccise in Italia sono state più di cento. Tenerne il conto significa avventurarsi tra i pochissimi dati a disposizione giacché nel nostro paese non esiste un osservatorio che vigili sulla violenza contro le donne. Così se in questi pochi anni si è potuto ragionare di numeri, lo si deve principalmente al lavoro instancabile di attiviste e blogger (in particolare Femminismo a sud e Bollettino di guerra). Di numeri non si parla come elenchi muti ma come altrettante storie distinte e irripetibili di chi è morta. Si evince che, in ogni singola circostanza, le donne sono state uccise per mano dei loro stessi compagni, ex o effettivi poco importa.

Il femminicidio non è ascrivibile ad uno status di indigenza o arretratezza culturale; non vi è un comune denominatore che indichi una specifica caratteristica socio-economica dell’assassino. L’indicazione che emerge dal libro, e che in effetti risponde alla cronaca a cui quotidianamente si assiste, è invece di altro segno: a morire sono donne che hanno detto no. Che hanno cioè posto il proprio rifiuto a qualcosa che non desideravano più. In questo senso, il femminicidio è la risposta violenta alla libertà femminile. Invece di comprenderla, gli uomini uccidono le donne che hanno osato abbandonarli o che – in qualche modo – si sono fatte assertive della propria esistenza nella forma della libertà.

Dal libro emerge chiaramente la posizione di Michela Murgia e Loredana Lipperini che in questi anni, attraverso numerosi contributi sul tema, hanno creduto di rintracciare la causa del femminicidio in un doppio nodo: quello del dominio e del mancato riconoscimento. Sul dominio fa da sfondo e si avvita la dicotomia tra oppressi e oppressori. Questi ultimi sono quegli uomini che utilizzano la violenza del potere per reprimere e punire chi pratica l’abbandono o il tradimento. Chi, più semplicemente, decide di intraprendere un’altra strada. In questa figurazione dolorosa, striscia lo stereotipo classico del cacciatore (uomo) e della preda (donna) attraverso cui il desiderio viene triturato e risputato dalla narrazione – ingannevole e ossessiva – della seduzione liminare al pericolo e alla morte.

Per poter parlare dunque di femminicidio c’è bisogno di smarcarsi da quella che Murgia e Lipperini chiamano «ruolizzazione» – imposta dalla società patriarcale – che sta pure disintegrandosi ma che – in questa disgregazione – impone ancora il proprio dettato esiziale. L’ho uccisa perché l’amavo potrebbe indicare in effetti un qualunque titolo di giornale, un modo di raccontare la favola di un amore andato a male o di una passione funesta in cui la brama di vendetta e di possesso viene compresa e legittimata subdolamente dal cuore infranto dell’assassino.

È a lui infatti che, incredibilmente, tutte le storie sono rivolte. Cioè a morire è una donna ma chi si impadronisce della scena è sempre l’uomo che l’ha uccisa – in quanto donna –  restando comunque entro una costellazione di tipo passionale. Dunque questo amore imperituro e furioso che porta, guarda caso, la morte all’oggetto amato, diviene il leitmotiv di ogni narrazione: c’è una soggettività maschile che o è malata o è tradita, della donna poco e nulla si sa. Il libro, lunga decostruzione di ambigui stereotipi e luoghi perniciosi, diviene così un piccolo vademecum su alcune storture da evitare quando si parla di femminicidio, prodotte come sono da una sottocultura scadente. C’è bisogno di un nuovo baricentro rispetto al tema, posizionarsi al centro appunto e aprire lo sguardo, smascherando le consuetudini che vorrebbero le donne imprigionate nel preconcetto vittimizzante di eterne vestali o surrogate mamme cattive. Il maschio dunque vorrebbe agire il dominio sull’oggetto di sua proprietà fino a  liberarsene, sopprimendolo nel momento in cui si rende conto che gli si palesa dinanzi un soggetto.

Questa mancanza di governo, inteso come ossessione disastrosa del controllo, sfocia sovente in finissime analisi psichiatriche o letterarie che però non restituiscono, secondo Murgia e Lipperini, l’intero della faccenda. Almeno non nell’esito perché mancano appunto le parole, spesso insieme ad una macchinosa negazione del fatto stesso. Il percorso proposto dalle autrici, che muove dall’assunto di diritti paritari, chiama un rilancio: poiché l’altra faccia del nodo è quella del mancato riconoscimento, è tuttavia difficile si attui tramite la parità di genere. Se si vogliono andare a scandagliare le radici profonde del femminicidio e della violenza contro le donne, il piano dei diritti rischia di apparire insufficiente. Piuttosto vi è la mancanza di linguaggio, come prontamente segnalano Michela Murgia e Loredana Lipperini.

Si potrebbe aggiungere anche della messa a tema della sessualità maschile; dal momento che non ci si può assumere la responsabilità e l’esperienza dell’altro, di cui la sessualità fa parte, non si può trovare soluzione se non saranno gli uomini per primi a indagarla. Ma il libro non cerca risposte, bensì racconta – e lo fa molto bene – lo stato delle cose, nel punto in cui ci troviamo. Bisogna imparare a parlare di femminicidio? Certamente sì. Attrezziamoci tutte e tutti dunque, consapevoli che le parole costruiscono il mondo che attraversiamo ogni giorno. E che sono già politiche, prestiamo loro attenzione.

 

Loredana Lipperini – Michela Murgia, L’ho uccisa perché l’amavo, (falso!), Laterza 2013, pp. 80, euro 9,00 [in appendice: Isoke Aikpitanyi «Cosa succederebbe se le donne uccise in Italia non fossero 100 ma 4000?»].

 

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