Toni Maraini (nome d’arte di Antonella Maraini), è scrittrice, poeta, storica dell’arte e studiosa del Maghreb. Nata in Giappone – dove la famiglia si era trasferita nel 1938 per le ricerche del padre Fosco – dopo aver studiato tra Italia, Francia, Inghilterra e Stati Uniti, ha vissuto tra il 1964 e il 1987 in Marocco insegnando all’Università di Rabat e in altre istituzioni. Conoscere Toni è stato, ed è, per me, affettivamente e intellettualmente, un dono perché le sue opere incrinano i ‘discorsi trionfanti’ dei media e del potere.
Dopo che, bambina, devi lasciare il Giappone con la famiglia, percepisci che vi sono – racconti in Ultimo tè a Marrakesh (2000) – «luoghi che si chiudono, mondi che finiscono», e, da allora, hai «attraversato e riattraversato mari, città ,valli… nella consapevolezza di non appartenere più a nessun luogo», ma che alcuni posti ti appartengono per sempre, perché nel mondo che si contrae «la condizione di migrante è l’ultima utopia». Oggi ti ritrovi in questa autodefinizione di migrante?
«In gran parte sì. Io mi riferivo però alla mia esperienza esistenziale. La visione migrante deve affrontare ancora molti nodi, cruciali quanto drammatici. La maggiore mobilità ne favorisce, con la mondializzazione, la condizione, e purtuttavia, paradossalmente (ma non poi così tanto visto che oggi i mondi tendono a ‘richiudersi’. …), tale condizione è drammatica per coloro la cui la libertà di circolazione è resa difficile o è vietata. La vera ‘utopia’ mi sembra adesso quella di riuscire a far crescere, nei sedentari e nei migranti, il sentimento di essere ‘cittadini del mondo’. Sentimento che mira più in alto della ‘migrazione’ individuale e si basa su una percezione globale del nostro divenire comune (umano, ecologico, politico, economico, etc.). Anche se la geopolitica lavora in senso inverso e alimenta conflitti e divisioni, la parola ‘utopia’ non deve far pensare a una cosa impossibile ma a un traguardo da raggiungere lavorando pazientemente di generazione in generazione per farne avanzare l’idea. Per quanto ne so io, nel nostro emisfero l’idea arriva a noi attraverso secoli e risale ai tempi di Diogene e ai pensatori dell’epoca Ellenistica!…. Nel dopoguerra del secolo scorso, il movimento dei Cittadini del Mondo dichiarava “[intendiamo] trasmettere [questo messaggio] ai giovani del mondo, nella convinzione che il futuro umano risiede nell’accettazione di un cosmo senza frontiere, di un globo liberato da sperpero e miserie, di una terra senza barriere d’espressione e opportunità (…), salvaguardato dai diritti umani mondiali e trasmesso a perpetua eredità dall’umanità all’umanità”. Roger Baldwin, allora presidente della Lega Internazionale per i Diritti Umani, aveva commentato “un giorno il mondo riconoscerà questa visione delle cose a meno che non si soccomba prima tutti a causa delle nostre follie!”. Mezzo secolo dopo, esistono varie organizzazioni confederate di Cittadini del Mondo e forse più grande è, trasversalmente, l’urgente consapevolezza di procedere verso ‘questa visione delle cose’… ma le ‘follie’ non mancano! »
Al centro della tua rimemorazione, familiare e collettiva, il ricordo della prigionia in Giappone costituisce il nucleo più forte di una «mitica, viscerale memoria comune», dove in particolare emerge la figura materna, giovane donna, che, «anti-fascista e intrepida», sceglie di non firmare l’adesione alla Repubblica di Salò finendo con le figlie piccole in campo di concentramento. Di fronte a chi cerca perfino di ‘proibire di ricordare’, sottolinei l’importanza di quella memoria come “una lezione di storia” per sottolineare alle nuove generazioni un oggi in cui esistono campi di detenzione, violazione dei diritti internazionali, ingiustizie e sofferenze. La memoria dunque come ricostruzione e forza critica?
«È stato detto che viviamo in un’epoca di ‘pensiero liquido’, di ‘tempo accelerato’ mediaticamente iper-connesso sul solo presente. Il pericolo è che venga in effetti ‘liquidata’ la percezione del passato con tutto quello che comporta come insegnamento e esperienza, e con i suoi punti concreti di riferimento che, nel bene e nel male, aiutano a posizionarsi nella storia dei fatti e delle idee. Una ricerca recentemente pubblicata sul New York Times (‘The stories that bind us’) documentava l’importanza del fattore ‘memoria storica e/o familiare’ nel rendimento scolare dei giovani, più equilibrati se hanno una ‘narrazione’ storica cui confrontarsi, sia per riconoscersi e attingervi, sia per opporvisi e criticarla, ma comunque per dare senso al proprio percorso. ‘Smemorarsi’ equivale a disorientarsi nel mare magnum di un eterno presente usurpato dal sistema consumistico/virtuale/mediatico che si sostituisce al pensiero libero e critico. La memoria del lungo cammino del nostro divenire ci aiuta invece a confrontarci al presente e rispondere alla domanda che Gauguin poneva a titolo di un suo famoso quadro tahitiano, ‘Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?’. Siamo costituiti da una archetipologia di fondo che laddove viene rimossa genera ‘mostri’ (ignoranza, barbarie etc.). La Storia ha valore propedeutico. Non so quanto conservarne memoria possa aiutare a ‘ricostruire’ ma di certo può aiutare a capire e costruire meglio».
Per andare oltre quello che Fosco Maraini – tuo padre chiama “il muro delle idee”, occorrono “capriole mentali”, dici, a significare incontri, ascolti e ponti, affermando «il concetto di pluralità di civiltà e di muri sormontabili nel gioco dell’avvicinamento». Ma nell’attuale Europa-fortezza, anche in Italia si è innestata la propaganda relativa ai conflitti di civiltà e alla strategia della paura. In questa deriva pensi che quella che tu definisci appartenenza mediterranea sia ancora sentita come un valore?
«No, non mi pare che in Italia, nonostante tanti discorsi e stereotipi, sia ancora sentita come un valore; da tempo l’Italia – ad eccezione di alcune associazioni sul terreno che vanno coraggiosamente controcorrente – ha voltato le spalle al Mediterraneo (politiche di scambio e progetti equi di sviluppo, informazione, inter-cultura etc.) e il rapporto Nord/Sud procede imperativamente a senso unico. Ma qualcosa preme, e prima o poi ci si dovrà confrontare a una mediterraneità, sofferta eppure necessaria, senza la quale neanche l’Europa unita può sottrarsi a crisi e declino».
La fine del lavoro, dello Stato, del sociale, le minacce per il giornalismo indipendente, per l’arte e per il cinema d’autore, sono tutti problemi che, raccolti in «una pila di documenti cartacei» circondano ed inquietano Agata, la protagonista del tuo Pandemonio blues (2009). Se non esiste più un fuori che non sia condizionato dalle coordinate di questa globalizzazione, alla fine del viaggio in Marocco, Agata/Toni tuttavia resta colpita dal “sentimento di urgente emergenza” di fronte a tale assetto che trapela in molti/e. Sente perciò che questo presente “ha bisogno di noi”. Cosa intendi con ‘noi’? e quali possibilità di cambiamento vedi nell’oggi?
«Il ‘noi’ lo intendevo abbastanza ampio e vago da portare lettrici e lettori a riconoscersi in un orizzonte comune. Ognuno ha il suo ‘noi di riferimento’. Ma se va alle radici di questa percezione senza chiudervisi, incontra gli altri ‘noi’. Le possibilità di cambiamento sono già in atto, e molti individui, e il loro ‘noi’, lo percepiscono… Con la loro urgenza, drammaticità e concretezza le varie crisi attuali possono essere occasione per ripensare l’intero assetto del progetto di società (consumistico, neoliberista, edonista, di fuga nel virtuale, oblio del bene comune, etc.) che si sta avverando ovunque insostenibile. Come scrive la filosofa Isabelle Stegers, ‘dobbiamo imparare ciò che siamo stati portati a disimparare (…) resistere e infrangere il sentimento di impotenza che ci minaccia”. Facile dirlo! Ma non ogni male viene per nuocere, e stili di vita e idee devono per forza cambiare, e stanno cambiando».
Nel libro I sogni di Atlante (2008) sottolinei la perdita della cultura della mobilità e dello spazio pubblico, e, insieme, della funzione democratica della strada, soppiantata dalla logica delle frontiere e dalla speculazione edilizia, logica cui si è uniformato anche il Maghreb, dove prima musicisti e poeti itineranti, donne e uomini, hanno trasmesso leggende e poemi nelle piazze, nei mercati attraverso l’halqa, di cui raccontasti alle giornate sulla città al Giardino dei Ciliegi. Puoi parlarcene?
«Ci vorrebbero mille pagine per farlo!… tanto era ricca nel Maghreb la tradizione popolare in tutte le sue molteplici espressioni, per lo più profane e secolari, o connesse al sufismo popolare, attorno cui faceva capannello la gente in cerchio (halqa) e che allietavano strade, piazze, aie di villaggi e feste popolari. Dalla danza, il canto, la poesia e le esibizioni di teatranti, mimi, acrobati e quant’altro, alla narrazione epica e mistica, la satira politica, i consigli di erboristi, curatori e oniromanti etc., la tipologia degli spettacoli era molto varia. Quella cultura dello spazio pubblico tradizionale, che ho avuto la fortuna da giovane di cogliere nei suoi ultimi veri bagliori (anni ’60), è praticamente tramontata, o sopravvive con difficoltà qua e la, talvolta ancora genuina, altre volte come caricatura turistica. Esodo rurale, inurbamento, industrializzazione, mutazioni socio-culturali, cultura di massa etc. etc. (senza dimenticare il biasimo del rigorismo puritano-religioso e quello dei burocrati della cultura piccolo borghese) hanno avuto gli stessi effetti che sulle nostre tradizioni popolari. Alcune cose però si sono egregiamente travasate nella cultura del nuovo secolo, hanno animato arti e pensiero, memorie sottese e nuove metamorfosi, e le giovani generazioni ne colgono alcuni insegnamenti. Nel ricco fenomeno di disegni, musiche, testi, satira politica e effervescenza artistica che ha accompagnato agli inizi, da Tunisi a Piazza Tahrir (piazza tonda come una halqa), la protesta pubblica popolare, si potevano ritrovare alcuni temi e costanti di questo corpus di tradizioni. E una certa volontà di riappropriazione ‘spettacolare’ e creativa della piazza. Logica non grata a regimi e fondamentalismi, ma che ha svolto il suo ruolo».
Hai scritto nel 2011 come i commentatori specialmente in Europa ignorano le dinamiche di fondo dell‘islam laico moderno nel pensiero, anche giuridico, e nel vissuto secolare maghrebino, preferendo parlare unicamente di “incompatibilita dell’islam con la democrazia”, dimenticando così i processi e le battaglie storiche dell’Occidente nel suo cammino da leggi canoniche e clericalismo di Stato a libertà civili: come vedi ora la situazione, dopo la cosiddetta primavera araba?
«Per ‘vederla’ bisognerebbe de-costruire il muro di ignoranza che attornia l’argomento ‘mondo musulmano’, e ricordarsi di quanto sosteneva lo storico Fernand Braudel sui ‘”tempi lunghi della storia”. Al momento degli eventi di Tunisia, e poi quelli di Piazza Tahrir in Egitto, media e commentatori occidentali si aspettavano, elettrizzati, una primavera subito compiuta e uno ‘spettacolo’ che si sarebbe concluso a lieto fine in poche settimane. Ma la storia non è un caffè istantaneo, e ciò che è iniziato è un processo che richiede tempo. Delusi perché pretendevano un risultato immediato, i commentatori occidentali hanno allora parlato di ‘autunno arabo’ e smesso di interessarsene proprio quando una migliore informazione sarebbe necessaria per continuare ad analizzare gli eventi. Comunque, né primavera, né autunno… piuttosto una mutazione in atto e un percorso che è passato, passa e passerà ancora per molti drammatici sobbalzi e difficili prove ma che, alla lunga, darà i suoi frutti. D’altronde , i frutti ci sono già, e da tempo. Partiti, sindacati, innumerevoli associazioni indipendenti (per i diritti umani, per i valori delle Costituzioni moderne, per la giustizia sociale, di donne, cooperative, giuristi, etc.) esistono da molto. Ricordiamoci che quando negli anni ’90 gruppi integralisti armati cercarono di prendere il potere in Algeria, il paese resistette grazie anche a queste espressioni della società. Non si tratta dunque di un fenomeno nato all’improvviso, o grazie a internet (che purtuttavia ha fatto di cassa di risonanza), ma del giro di boa storico di un processo radicato nel secolo scorso e nei diversi progetti di società e forze in campo che in Nord Africa come altrove (pensiamo a noi…) si confrontano da decenni, sin dalla fine del periodo dei grandi obiettivi e speranze degli anni 60. La nuova fase è caratterizzata oggi da un loro confronto politico, inserito in uno scenario di crisi. Il malgoverno di regimi a lungo sostenuti (incluso quello di Khaddafi) per gli interessi occidentali e delle oligarchie locali, ha prodotto negli anni più miseria, disuguaglianza sociale e corruzione che sviluppo. A questo s’aggiunge la crisi causata da una mondializzazione finanziaria e multinazionale che in Africa è stata ‘imposta e non negoziata’, come ha scritto un economista. Era da aspettarsi che i partiti dell’area fondamentalista e del riformismo conservatore salafita avrebbero sfruttato l’occasione del grande malcontento e dell’esasperazione popolare per occupare l’arena politica con promesse populiste e discorsi che strumentalizzano la religione. Come c’era da aspettarsi che geo-politica e logica finanziaria neoliberista li avrebbero in qualche modo favoriti. Tuttavia, entrando legalmente con le elezioni nell’arena politica, i movimenti fondamentalisti dovranno dar prova a chi li ha votati di sapere governare e risolvere i loro problemi. Il prossimo giro di boa, e momento di verità, sarà quello in cui le popolazioni porranno a loro domande in questo senso su lavoro, miseria, carovita, corruzione, abusi del potere, incompetenza etc., tutti temi concretamente emersi con le ‘rivolte dei gelsomini’ e che nella crisi socio-economica che colpisce il Maghreb assumeranno sempre più importanza. Intanto esiste una realtà dove le correnti delle opposizioni democratiche esistono, resistono, si organizzano, producono, vanno avanti, lavorano sul terreno e nel tempo, mentre chi ha vinto impone le sue logiche e i suoi soprusi, e tanti passi indietro, ma non è la sola forza in campo. Senza dimenticare un’altra istanza, quella militare, ma qui il discorso si complica perché si mescola agli arcani delle politiche in atto nell’area mediterranea, minacciata da tante ombre».
Nawal El Saadawi sostiene l’intreccio di creatività e dissenso per illuminare il presente con la scrittura; e tu ricordi che «laddove le politiche mancano, non mancano i poeti». Ritieni così che, come scrive Arendt, non c’è filosofia né analisi che possano paragonarsi, per intensità e ricchezza ad una narrazione?
«Sì, è così, nel Maghreb come altrove. La storia ne è testimone. Al momento più brutale e buio dell’occupazione militare francese degli anni ‘50 in Algeria, alcune bellissime poesie sulle sofferenze della gente e gli ideali di libertà scritte in prigione da una manciata di donne poetesse militanti detenute dai Francesi (penso a Djamila Amrane, Zhor Zerari, Anna Gréki, Baya Hocine, Annie Steiner) e i versi del poeta Bashir Haj Ali, venivano imparati a memoria, ricopiati e diffusi circolando clandestinamente di mano in mano e furono più efficaci che le bombe… Il Manifesto del primo gruppo di artisti moderni algerini riprendeva questa idea e dichiarava “il segno è per noi più possente delle bombe”. Contro ogni violenza, arte e parole… Non è ingenuo romanticismo, ma sana propedeutica. Ecco perché dovremmo dare più sostegno e visibilità alle politiche sociale e culturali inter-mediterranee. Da un capo all’altro del Nord Africa poeti e poetesse, scrittrici e scrittori hanno poi contribuito negli anni con una ‘narrazione’ – sociale, lirica o elitaria che sia – a una maggiore consapevolezza critica e culturale. E quando i vip della letteratura non sono più riusciti a cogliere il disagio e l’indignazione della gente, sono scesi in strada bloguers, artisti, graffeurs, videasti e poeti ad accompagnare le rivolte in Tunisia e Egitto, ma non solo (vedere, p.e., per il Marocco, il Mouvement du 20 Février). La forza della loro ‘narrazione’ – che accompagnava coraggiosa denuncia e satira politica con immagini, parole, musica (il genere del rap p.e.) – è stata dirompente. Dittatori e regimi non amano la satira, e fondamentalisti e salafiti sono disorientati da poesia e humour…. Ricordiamoci che la loro ‘narrazione’, costruita su interpretazioni oscure e ‘accidiose’, non a caso teme sentimenti poetici, risate liberatorie e individualismo creatore. Per averli criticati con derisione, donne e uomini artisti, cineasti, poeti e bloguers hanno subito minacce, censure, anatemi e condanne. Ma hanno anche trovato grande ascolto e sostegno tra giovani e gente comune, e segnato una svolta. L’artista tunisina Nadia Khiari, che aveva inventato, in un blog apparso già prima della caduta di Ben Ali, il personaggio ironico di un gatto parlante divenuto popolarissimo, ha ricevuto il premio delle Nazioni Unite Cartoonist for Peace of the Year 2011… Tutto questo per dire che le modalità possono cambiare ma l’apporto creativo ha sempre una sua imprevedibile ‘intensità’ e disarmante funzione.»
I libri di Toni Maraini in italiano:
Anno 1424 (Marsilio 1976), Ultimo thè a Marrakesh (Lavoro 1994 e nuova ed. 2000), Diario di viaggio in America (La Mongolfiera 2003), Ricordi d’arte e prigionia di Topazia Alliata (Sellerio 2003), La lettera da Benares (Sellerio 2007), I sogni di Atlante, aedi, saltimbacchi, poetesse e musicanti nella tradizione di spettacolo popolare del Maghreb (Poiesis 2007), Da Ricòrboli alla luna. Brevi saggi sulla vita e l’opera di Fosco Maraini (Poiesis 2012).
Toni Maraini, “Guerra in Libia, l’alba di un’odissea?”, Liberazione 1.4.2011
Toni Maraini, “L’Italia è ancora un paese mediterraneo?”, California Italian Studies Journal, 1, 2010.
Nawal El Saadawi, Dissidenza e scrittura,Spirali 2008
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