"Sono la lingua che parlo"

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Emanuela E. Abbadessa è una siciliana trapiantata a Savona. Quest’anno con il suo romanzo Capo Scirocco (Rizzoli) ha vinto il premio Rapallo Carige. È un libro bellissimo, che ha l’andatura di un classico ed è pieno di passione. È un’amica di lunga data, dunque eviterò l’ipocrisia del “lei”.

Emanuela, hai lavorato tanti anni come docente universitaria e musicologa. Poi è scattata la voglia di raccontare. Quando e perché?

«La scrittura è sempre stata una mia passione. Io ho sempre scritto. Il problema è che non ho mai pensato che quello che scrivevo meritasse di essere letto da qualcuno. Ho scritto per tenermi compagnia. Sono figlia unica e i miei genitori lavoravano. Mia nonna mi leggeva le storie, e quando mia nonna smetteva di leggere, le storie me le scrivevo da sola. Rizzoli mi ha dato l’opportunità di raccontare questa storia incentrata su un personaggio ispirato alla figura di mio suocero che non ho mai conosciuto. Scappò di casa per studiare».

Quanta libertà ti sei presa nel raccontare? Soprattutto rispetto alla tua attività di musicologa, di “scienziata della musica”, dove le cose che si dicono devono essere per forza quelle.

«Totale. E’ stata un’emozione bellissima. Scrivere un saggio significa mettersi continuamente in mano alle fonti, analizzarle, senza spazio per la fantasia. Dico sempre che il lavoro di un ricercatore, anche di un musicologo, è simile a quello di un investigatore. Uguale a quello della polizia scientifica: hai delle prove e sono le prove che devono parlare. In questo caso mi sono presa, invece, molte libertà, almeno per quanto riguarda i sentimenti dei miei personaggi. Ma non mi sono presa nessuna libertà per quanto riguarda l’ambientazione. Perché ho imparato a scrivere studiando, quindi se cito le carrozze Tagliabue è perché quelle carrozze esistevano e quella che cito nel libro l’ho studiata, perché è stata esposta in musei. E così ho fatto per tutto il resto: per l’abbigliamento, per le case d’appuntamento, o come si accendevano i lumi per strada, come si lucidava l’argento. Una grande fatica di ricerca, ma una fatica diversa rispetto a quella del musicologo».

Il tuo libro racconta di una grande passione. Cosa c’è di te in queste pagine?

«Mettiamo qualcosa di noi in tutti i personaggi che descriviamo, ma al contrario di quanto si possa pensare, nella protagonista del mio romanzo non c’è quasi nulla di me. L’unica cosa che mi riguarda e che le ho dato è un’affermazione: dice di sentirsi un’amante tradita dalla musica. Io mi sento così. Per il resto lei rappresenta un modello di donna contro il quale mi batto»

Tu tradita dalla musica?

«Proprio così. La musica mi ha tradita perché è stata la causa di molti dolori e mi ha tradita anche perché io non sono una musicista. Ho studiato musica ma non sono una musicista. Né brava né non brava. Non lo sono affatto. Il pianoforte che ho studiato fin da bambina non lo so suonare. Mi impaurisce. Poi ho studiato canto, con grande soddisfazione, ma non avevo una voce degna di essere ascoltata in un qualsiasi teatro. Quindi mi sono limitata a cantare nei salotti, il che fa di me un’amante tradita dalla musica. Posto che c’è qualcosa di me in ogni personaggio e che la storia è del tutto avulsa dalla mia biografia, ho messo molto di me nel “cattivo” del romanzo. Nello sciupafemmine, che è Mimì Russo. Che poi, detto per inciso, le donne non ci si sciupano affatto».

Nel tuo libro c’è una grande attenzione alla lingua. Quali i modelli?

«Per questo romanzo ho saccheggiato quasi tutte le mie grandi passioni letterarie. Flaubert, Melville, Scott Fitzgerald, Tolstoj. E ci sono dentro anche Brancati, Patti, Tomasi di Lampedusa. Perché non ho un unico modello, ma credo di essere il risultato di tutte le cose che ho letto. Sono quella che gli editori definiscono un “lettore forte”, ovvero uno che legge quattordici libri l’anno. Io quattordici libri li leggo in due mesi».

E il lavoro sulla scrittura?

«È un discorso un po’ più complesso. E riguarda la mia sensazione di identità nazionale. Sono siciliana e ho sempre pensato che i siciliani avessero subito l’unità d’Italia. Io, dunque, mi sono sentita sempre siciliana, non italiana. Pensavo di non avere nulla in comune con gli altri italiani della Penisola. E questo portava, soprattutto nell’adolescenza, ad atteggiamenti da contestatrice, contro lo Stato, l’ordine. Poi quando è venuto il centocinquantenario dell’Unità d’Italia, ero a  Savona. Dunque, una siciliana della diaspora. E quel giorno da tutte le case risuonava l’inno nazionale e da tutti i balconi sventolava la bandiera nazionale. E io mi sono seduta al computer e ho scritto una pagina che s’intitola Io sono italiana. E l’ho mandata a mio papà. Perché negli anni in cui contestavo tutto e tutti avevo sempre delle forti discussioni con mio papà, che invece aveva vissuto il Ventennio e sapeva quale fosse l’importanza di un Paese unito e fondato su una democrazia. Gli ho scritto quella lettera. E ho sentito che la mia lingua è quella di Alessandro Manzoni, di Dante Alighieri e poi di Cielo d’Alcamo e di Jacopo Protonotaro che l’italiano lo hanno inventato. Io sono la lingua che parlo».

Emmanuela Abbadessa, Capo Scirocco, Rizzoli Milano 2013, 372 pagine, 16 euro

 

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