Farsi bambini abbastanza

PASSAPAROLA:
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«Quella notte avevamo dormito in una fabbrica in rovina dentro un parco. L’avevamo trovata seguendo l suono dell’acqua. Eravamo arrivati all’appuntamento prima del tramonto alla stazione. Era più di un’ora che camminavamo, con gli zainetti e gli strumenti musicali, lungo la ferrovia, cercando un posto al coperto dove fermarci. Sulla strada avevamo fatto qualche incontro, un branco di cani randagi, un gabbiano grasso, un gruppo di ragazzini zingari. Tre maschi e una femmina. Con loro ci saremmo volentieri presi a sassate, solo che era intervenuto il Raptor e ci aveva fermato».

«Sono uscito. Fuori c’era silenzio. Non vedevo che ombre, nero su nero. Ho cercato la luna, ma in alto era grigio senza una stella, morbido, appena più chiaro del bosco. La luna non c’era. Da dove veniva la luce che rendeva le nuvole così chiare? Forse veniva dalla strada, dall’altra parte del bosco. Mi sono messo a correre tra gli alberi. Gli scricchiolii dei miei passi mi rassicuravano. Ma se rallentavo, il bosco sembrava che respirasse. Strok. Un ramo si è rotto, è caduto proprio davanti alla mia faccia. Tu-uh, ha gridato un uccello notturno. Tu-uh, un altro gli ha risposto. Un gufo, una civetta, un allocco. Non lo so. Ho corso ancora».

Sono due momenti intensi e irripetibili, di quelli che mettono alla prova e lasciano cicatrici, di una giornata, una delle tante, nella  nuova vita di Manuel rapito a dieci anni in un ipermercato a Trento mentre gioca col suo Game Boy.

Un’avventura, una «favola moderna che fa paura ai genitori», un viaggio picaresco e insieme «un rito di iniziazione come quello dei popoli amazzonici, che per far diventare adulto un bambino lo abbandonano in mezzo alla foresta o gli scarificano la pelle». Un gioco che lascia cicatrici, insomma – e nulla è più serio di un bambino che gioca – ma come in tutti i giochi o come nelle fiabe, c’è una conclusione, un lieto fine. Manuel tornerà a casa, nella sua famiglia. Lo incontriamo pochi anni dopo – anche se a lui pare un millennio – che racconta con linguaggio e sguardo da adulto, la sua esperienza «come se non ci fosse mai stata, come fosse capitato ad un altro o in un’altra dimensione», annunciando fin da subito che colui che lo ha rapito è stato ucciso. Ma certe volte si sveglia di notte, va a guardare i genitori che dormono e pensa che «la vita vera era quella col Raptor … e che questa  – la scuola i genitori, i regali di compleanno, la piscina – è come un giro in giostra, un esercizio finto che non allena a niente».

Manuel non ha vissuto la sua avventura da solo, è in compagnia di altri bambini, tutti tra i dieci e i dodici anni: Alex, rapito in Ucraina, col padre ricco e ambasciatore, almeno così, lui che si diverte ad inventare storie, racconta; Ana, bassa e grossa, con la voce cupa che sembra un lupo, rapita in Romania; Leonid, che somiglia ad una giraffa con il collo corto, rapito anche lui in Ucraina; Filip, sloveno, piccolo e sottile come un ragno; Tania, la prima nata sana dopo il disastro di Cernobyl, che ammansisce con lo sguardo bestie feroci, rapita in Bielorussia; Catardzina, alta con le spalle strette, nell’est della Polonia; e Dragan, nella periferia di Belgrado.

Si vestono con vestiti e scarpe rubate dai cassonetti della Caritas che «non hanno l’odore di sudore morto come quelli usati». Per mangiare si prostituiscono, rubano candelabri nelle case di chi li ospita, chiedono l’elemosina divertendosi «a fare scene pazze»; o frugano nell’immondizia il giorno della raccolta dell’organico. Dormono in fabbriche abbandonate che nascondono taniche tossiche, in grotte, in ex manicomi dove un tempo si praticava lo shock malarico, nei cimiteri, nelle stazioni. Camminano per lo più di notte attraversando boschi o di giorno a piedi sulle rotaie dei treni per non perdere la direzione. Fanno amicizia con zingari, barboni e punkabestia. Tra uno spostamento e l’altro, con la fame che a volte gli buca lo stomaco, e col freddo che rende gli arti insensibili, giocano ad acchiapparella come bambini normali. Uno dei giochi preferiti è scassinare distributori dei condom, quelli colorati e profumati, per farci palloncini. La sera, seduti in cerchio intorno al fuoco, ascoltano Alex che racconta «sempre le stesse storie dove succedono però cose sempre diverse».

Formano una comunità con regole durissime di convivenza – chi sbaglia viene colpito con ferocia – e gran rispetto della gerarchia, ma tra di loro circola anche molta dolcezza e protezione reciproca.  Siccome puzzano perché non sempre trovano da lavarsi e per il piscio non trattenuto, la gente si allontana scambiandoli per zingari. Nessuno di loro pensa di scappare, seppure siano molte le l’occasioni, per non mettere nei guai gli altri  – il Raptor se uno sbaglia punisce a caso uno del gruppo – ma soprattutto perché stanno bene, come testimonia lo stesso Manuel: «ci voleva un amore più forte per portarmi via. Mi ero abituato. Se allora qualcuno mi avesse detto: ormai stai bene col Raptor, avrei negato … scoprire che c’era voluto così poco per dimenticare mia madre, mio padre, il bambino che ero stato mi avrebbe fatto paura. Ma quella notte mentre correvo non ci pensavo».

Chi è il Raptor? Un uomo metà angelo metà bestia; metà Pifferaio Magico, metà Uomo Nero, che piange ogni volta che rapisce. I bambini lo chiamano così perché fa pensare ad un predatore estinto: un piccolo dinosauro del Cretaceo che corre «a passetti veloci zoppicando. Se ti scordavi chi era faceva ridere».  E’ il gruppo che lo tiene in vita, lo riscalda col calore dei propri corpi e lo nutre con uova fresche e parmigiano rubati nei supermercati. In realtà è uno specchio che riflette il desiderio inconsapevole di fuga dalla famiglia, e il Raptor offre loro l’opportunità. Non a caso  ha scelto le sue prede con oculatezza: Leonid per la serietà;  Dragan per la vitalità; Ana per la forza mista a cattiveria; Catardzina per il suo farsi pecora; Tania per la libertà;  Alex per l’intelligenza; Filip per la crudeltà mista a disperazione; Manuel non si sa. Qualità senza le quali sarebbe impossibile sopravvivere e fare comunità. Nessuno dei bambini rapiti  hanno infatti opposto resistenza, attratti dalla forza che il Raptor emana. Manuel lo ha avvertito la prima volta simile ad un soffio, un vento freddo contro il fianco, e quando ha posato la mano sulla sua testa lo ha calmato. Né il Raptor farebbe mai loro del male. «Ci voleva vivi perché portavamo la sua impronta».

Attraversano un’Italia devastata dall’immondizia e dalla speculazione edilizia, disseminata di fabbriche inquinanti che hanno avvelenato acqua e boschi, e abitata da immigrati neri vestiti come gli anziani di paese. Si portano dietro una sedia, che è il trono del Raptor, strumenti musicali, Il libro delle fini e degli inizi che parla di catastrofi, glaciazioni, terremoti, coi disegni e le fotografie, e  Ventimila Leghe Sotto i Mari che verrà bruciato per fare fuoco.

Arriveranno in sette – uno di loro morirà o forse è sparito –  il giorno della morte di Wojtila, a Roma dove finisce la storia, e dove il Raptor verrà ucciso.

Scrive Manuel nell’epilogo: «I giornali hanno scritto tante cose: che voleva venderci ai pedofili o ai trafficanti di organi, o che doveva incontrarsi con i satanisti, farci uccidere e bere il nostro sangue in riva al Mediterraneo. Ma non è vero, voleva le cose che vogliono tutti: sopravvivere, riprodursi come era capace, cercare di essere felice …. Che cosa immaginavano che fosse il Raptor per ucciderlo così?»

 

L’ultimo libro di Carola Susani  Eravamo bambini abbastanza racconta, attraverso la voce di Manuel, di questa avventura/viaggio d’infanzia.

Del suo essere stata «abbastanza bambina» Susani aveva parlato in L’infanzia è un terremoto, un  reportage autobiografico, e insieme analisi storico-politica e diario di bordo. Ancora un viaggio, da  madre, nei luoghi  dell’infanzia vissuta, dopo il  terremoto, nella Valle del Belice, al seguito dei genitori impegnati come architetti volontari nel Centro di Lorenzo Barbera per la ricostruzione. A Partanna in particolare scopre la vita avventurosa e selvatica «in mezzo all’immenso parco giochi delle rovine», e sperimenta all’interno della baraccopoli, dove vivono,  una comunità forte e coesa che lascia spazio ad un’educazione libera e anticonformista, ricca di relazioni con i bambini ma soprattutto con adulti coi quali parla alla pari di politica, di utopia e di rivoluzione. «Nelle città morte ci sguazziamo, la decomposizione non ci fa paura. A Partanna, a cinque anni, io e Luca disegnavamo scheletri addobbati con crinolina e cappelli a larghe tese» scrive Susani nel testo. Un infanzia descritta come un trauma, non diversamente da quello subito per un terremoto.

«Un terremoto è, a mio parere un avvenimento paragonabile all’abbandono dell’infanzia, per diventare adulti e scoprire così il proprio destino» scrive in un blog l’autrice.

In una intervista per l’uscita di Eravamo Bambini Abbastanza, dice: «ho avuto la “fortuna” di crescere dai 4 agli 8 anni in una baraccopoli della Valle del Belice. Lì ho vissuto libera scoprendo il mondo attraverso l’esperienza. I bambini del libro sono com’ero io: liberi, sporchi, forti e coraggiosi. Il contrario dei figli iperprotetti dalle famiglie d’oggi».

Ritorna dunque il tema dei bambini legato a quello della fascinazione per le rovine che in quanto «sospese in una fine piuttosto che finite», mondo aperto, non finito, sono spazio per l’immaginazione, capaci ancora di accendere emozioni.

Ma ritorna anche il tema del trauma che fa tabula rasa, genera caos, scardinando abitudini, provocando crisi,  aprendo a nuove possibilità di trasformazione, di sporgersi su mondi possibili, imprevisti. Crea rovine che lasciano cicatrici.

Inutile sottolineare quanto di autobiografico ci sia nelle avventure degli otto bambini, a partire dalla presenza de Il libro delle fini e degli inizi. Racconta Alex: «dalle catastrofi nascono sempre nuovi paesaggi, nuovi habitat, specie mai viste. Come se i terremoti, le glaciazioni le tempeste fossero venute apposta per noi per la gioia dei nostri occhi …  Come c’è stato apposta un incidente, uno dei tanti, simile a quello di Cernobyl per fare nascere Tania». Una volta dominavano i dinosauri, dice ancora Alex, per questo quando il Raptor si è appostato in mezzo alle rovine,  e Tania l’ha visto, storto come una tra le piante di ortiche, che la guardava e sembrava chiedesse aiuto, non ha resistito.  E lo ha seguito.

Chi immaginiamo sia il Raptor? L’immaginazione tra le rovine? Il richiamo ad un mondo che porti l’impronta del dinosauro? Il trauma che offre un’opportunità da vivere per uscire dalla passività, dall’istituzionalizzazione, dall’“infantilizzazione” dove il potere ci ha collocati?

Per iniziare una nuova vita, un nuovo giro di giostra, difficile, pericoloso quanto vuoi,  ma vero in quanto allena alla felicità.

Carola Susani, Eravamo bambini abbastanza, Minimum Fax Roma 2012, 211 pagine, 13,50 euro

Carola Susani, L’infanzia è un terremoto, Editori Laterza, Bari 2008, pag.142, euro 9,00

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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