L’evento traumatico per il popolo palestinese, costituito dal forzato abbandono delle proprie case nel 1948, è un nodo che sempre affiora nelle narrazioni pubblicate in Italia, fin da quando Salwa Salem rievoca il padre che – tornando davanti alla sua casa nel 1967 – “rimane impietrito” con le chiavi in tasca finché il nuovo proprietario israeliano non lo manda via. Nel primo libro, Sharon e mia suocera, Suad Amiry aveva parlato del ritorno emotivamente “insostenibile” a Jaffa a cercare la casa di cui i genitori le avevano tanto parlato nei dettagli: esprimevano un tale amore ed una così profonda nostalgia per quello spazio abbandonato proprio nella descrizione minuziosa, come se in esso vi fossero “molecole di mondo” (Bachelard).
Questo ultimo libro è dedicato a questa ferita aperta attraverso alcune storie dove si rimpiange qualcosa che c’è ancora ma non ti appartiene più, si rimpiange la casa e la patria perdute, radicate “negli abissi dell’anima ferita” (Borgna). La narrazione è così l’elaborazione di un lutto personale e collettivo, ma costituisce anche una lucida accusa politica ad Israele ed al mondo intero: vive nella coscienza del trauma, “un dolore che non si cancella”, affermando però una resistenza che interroga la politica dell’oggi. Il trauma infatti, se si può lenire con le parole e gli affetti, ha bisogno di un forma di risarcimento politico, ma, nel caso della Palestina, come di altri, l’ingiustizia non viene riparata ed anzi lo stato di oppressione perdura e sistematicamente si consolida. Ancora una volta è la letteratura a trovare le parole quando la politica dei governi tace o balbetta o assume la maschera dell’arroganza.
Se la Palestina – una terra trasformata dallo Stato d’Israele nella più grande prigione a cielo aperto del mondo – è l’oggetto, il luogo, fisico e mentale, il respiro di ogni libro di Suad Amiry, la strategia narrativa adottata è quella dell’ironia, uno sguardo sorridente, ma lucido e politicamente implacabile, che coglie le assurdità insieme alle sofferenze e ingiustizie di quella realtà. L’ironia si delinea, per chi vive un’occupazione da più di sessant’anni, come cifra necessaria per fare i conti con le difficoltà del quotidiano, una strategia quindi di sopravvivenza e di resistenza, che coglie gli aspetti comici e assurdi nelle tragedie, anche per incrinare lo stereotipo del palestinese confinato nella figura della vittima. Però l’ironia è anche luogo della tensione, in quanto esprime un conflitto fra valori e visioni del mondo, fra le norme assurde imposte e il desiderio di ‘normalità’ di chi vi è sottoposto. Israele infatti ha occupato non solo i territori, in uno spezzettamento della società connesso con la frammentazione territoriale legata agli insediamenti dei coloni in espansione e al Muro, ma le menti, le emozioni, il tempo, privando gli/le abitanti della possibilità di avere una esistenza normale e di immaginare il futuro. La forma ironica incrina proprio quel sistema di potere con i suoi discorsi trionfanti e fa emergere differenti universi di significato dell’esperienza e della vita sociale, senza oscurare il dolore e la rabbia, dei quali anzi si nutre, nel desiderio di far capire al mondo l’ingiustizia che si sta perpetrando verso un popolo.
Mentre in Buthaina Al Nasiri, i nuovi emigrati in Israele sono ossessionati dalle scritte arabe che tornano a riaffiorare dai muri verniciati, fino a creare incubi e fantasmi, in Suad Amiry gli israeliani insediatisi nelle nuove case non sono in crisi,e, di fronte agli antichi proprietari, tengono la porta chiusa o urlano di andar via minacciando di chiamare la polizia: ma vi è anche l’urlo dell’assente, un urlo che donne e uomini palestinesi rivolgono alla Storia. La sofferenza è per tutti i palestinesi uccisi e imprigionati, per l’architetto Andoni, Umm Salim e per Huda che, “trasformati in nuovi ebrei erranti”, hanno lasciato il cuore in quelle loro case, a causa di uno Stato che – dimentico della tragica lezione della Shoah – li ha oppressi e cacciati, nel silenzio e nella connivenza degli altri paesi.
E legalmente li considera “assenti”: per la legge d’Israele ogni palestinese costretto ad abbandonare il territorio assegnato al futuro stato ebraico e la casa con i mobili e perfino gli album fotografici di famiglia nel 1948, fra bombardamenti continui, è un “absentee landlord, un proprietario che non risiede nella propria casa” (gli assenti costituiscono il novanta per cento della Palestina di quell’anno)! Gli Israeliani danno “alla Nakba del 1948, la nostra catastrofe – sottolinea Suad – il nome di Guerra d’Indipendenza, Indipendenza da chi? Dagli Inglesi che li hanno aiutati a fondare uno stato ebraico nella Palestina storica?”
David Grossman già nel 1988 denunciava le parole lavate in Israele, dove i “territori occupati” diventavano solo ‘territori’, mentre i palestinesi non erano mai “uccisi dall’esercito”, ma “trovavano la morte”: una “vera lavanderia delle parole” che traccia un confine (ancor prima del muro reale costruito) fra chi domina e chi è senza diritti, cercando di depotenziare il dolore sociale prodotto. Se lavare le parole è una metafora, implica anche esperienze che segnano le persone con una loro concretezza e pregnanza indelebili, un trauma che avrebbe bisogno di una giustizia politica e storica.
Suad Amiry dice che a volte vorrebbe dimenticare tutto questo dolore ma la Palestina così assediata e frantumata è un pensiero ossessivo, che non lascia libertà, e Mahmoud Darwish, pensando anche al suo villaggio natale Birwa totalmente distrutto durante la Nakba, scrive: “Paese mio: stretto a me come la mia prigione”.
Suad Amiry, Golda ha dormito qui, traduzione di Maria Nadotti, Feltrinelli 2013, pp. 219 ill., euro 16,00
Suad Amiry:
Sharon e mia suocera. Diari di guerra da Ramallah, Palestina, Feltrinelli 2003;
Se questa è una vita. Dalla Palestina in tempo di occupazione, Feltrinelli 2005;
Murad Murad 2009
Eugenio Borgna, Le emozioni ferite, Feltrinelli2009
David Grossman, Il vento giallo, Mondadori 1988
Gaston Bachelard, La poetica dello spazio,Dedalo 1975
Salwa Salem, Con il vento nei capelli, Giunti 1993
Buthaina Al Nasiri, Notte finale, Baldini Castoldi 2003
Mahmoud Darwish, Come i fiori di mandorlo o più lontano, Epochè 2010
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