Da Calcutta alla California

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Jhumpa Lahiri, la scrittrice di origini bengalesi nata a Londra, che ora vive a New York, già apprezzata per i suoi libri precedenti, nel suo nuovo libro La moglie nell’incipit riprende un verso di Giorgio Bassani: “Lascia ch’io torni al mio paese sepolto/ nell’erba come un mare caldo e pesante”, quasi a significare  il fluire del tempo interiore e del tempo storico da Calcutta alla California e viceversa.

Nel Bengala nel periodo della rivoluzione nelle campagne durante gli anni sessanta, quando, in seguito alla repressione sanguinosa dei contadini che a Naxalbari chiedevano la libertà di coltivare la terra, nasce un movimento di orientamento maoista. Subhashi e Udayan, fratelli molto uniti, fanno scelte diverse: il primo un dottorato in America, il secondo la politica,  partecipando  alla lotta dei maoisti naxaliti. Subhashi ritorna in patria per l’uccisione del fratello che ha lasciato una moglie incinta, Gauri: si fa carico della giovane sposandola e conducendola via con sé sia perché i genitori vorrebbero sottrarle il nascituro sia per proteggerla dalla polizia  sia per mantenere un legame con l’amato fratello.

Se lo smarrimento proprio di chi emigra attraversa tutti i libri dell’autrice, fra narrazioni di esilio, di perdita e di conflitti nell’essere fra due culture, qui – in Gauri – si aggiunge l’oscurarsi di ogni orizzonte di senso e di speranza che segna la sua vita dopo aver visto l’uccisione del marito nella palude davanti a casa: The Loweland è il titolo originale. L’esperienza della sofferenza e quella dell’altrove sconfinano l’una nell’altra e si accompagnano alla ricerca della solitudine in un ambiente e fra persone che non sanno nulla della sua storia, perciò a Rhode Island  ama confondersi fra studenti dell’università, ascoltare le lezioni nell’anonimato. Quel trauma ha determinato una rottura nella sua esistenza, una discontinuità che la distacca dalle sequenze del quotidiano e degli affetti, e che la rende come “distratta”, distante sia da Subhashi sia dalla figlia.

Alla morte di Udayan si era lasciata vivere perché “aveva Bela dentro di sé”, ma mi sembra attraversare una sorta di morte biografica (Borgna), in cui non ci sono valori diversi da realizzare: la morte “l’ora che non ha più sorelle” ( Celan) le ha tolto una vita animata dalla presenza di Udayan, dal suo abbraccio, dal suo pensiero e dall’impegno politico. A Subhashi ha raccontato solo l’essenziale, e “schiaccia tra le dita”  tutti gli altri momenti, separando nella vita matrimoniale “cuore e fisico”: ora vuole tempo per sé, dare un senso alla sua vita, e non si capacita che “il compito finale lasciatole da Udayan” sia Bela che sembra divorare la sua vita. Dopo anni prova quasi rabbia verso di lui, e, nel groviglio di sentimenti, decide di partire, lasciando al marito solo una lettera d’addio in cui “in cambio di tutto quello che hai fatto per me – scrive – ti lascio Bela”.

Nella complessità di vicende e personaggi, mi soffermo su Gauri che, dopo molti anni, si presenta a casa di Subhashi trovandovi la figlia con una bimba: la richiesta di divorzio, anche se ragionevole, l’aveva turbata facendo riemergere alla coscienza stratificazioni emozionali insostenibili e aveva sentito il bisogno di rivedere il marito, ma Bela la respinge.  Le scriverà poi che, se la nipotina vorrà un giorno incontrarla, non lo impedirà, ma lei non ha questo desiderio: “Tu mi hai già insegnato a non aver bisogno di te”.

Gauri  dopo 40 anni va in India a vedere la casa e la pianura dove Udayan era stato ammazzato: due anni della sua vita, da moglie e da “complice di un delitto. Era sembrato ragionevole” quello che le chiedeva Udayan  anche per la segnalazione di abitudini e orari relativi ad un  poliziotto “da togliere di mezzo”, adesso lei è la “sola custode della propria colpa”. Lì, incapace di ritrovarlo, ripensando alle parole dure di Bela, “sentì una nuova solidarietà con lui. Il vincolo della non esistenza”.

Il libro si chiude con la messa in scena del racconto dalla scelta di lotta armata con la  doppia vita, in cui diventa  “anello di una catena che non era in grado di vedere”, perciò – è Udayan stesso a raccontarsi, fra visionarietà e tempo reale – quando viene catturato non ha il coraggio di guardare Gauri, sa di averla usata e di averle mentito, ma di averla amata. Lei ora sembrava guardarlo con aria disillusa, ma, morendo, crede di averla vicina.

E così il libro lascia molti interrogativi a chi legge e  si lascia avvolgere  da una storia narrata in modo così avvincente e intenso, che attraversa la Storia senza dimenticare sentimenti, passioni, dolori, riflettendo sul gesto generoso di Subhashi che ha protetto e amate moglie e figlia del fratello, ma viene abbandonato senza alcuna riconoscenza.

Per Gaudi, prigioniera del passato con il suo dolore ed i suoi rimorsi, il tempo vuol davvero dire – come il termine bengalese kal – ieri e domani, anche se ha cercato di rimuovere il trauma: “l’enorme distanza” tra  Rhode Island e Calcutta le offriva una difesa più efficace del tempo”, ma lei sapeva che quei momenti terribili esistevano ed erano laggiù. La sola dimensione temporale che la domina è quella del passato con rimpianti e rimorsi. Non poteva fingere di imitare Bela che da piccola usava la parola “ieri” in modo flessìbile, come  il “ricettacolo di qualsiasi cosa avesse immagazzinato nella mente”, così il passato si confondeva e si appiattiva: “la sua memoria era a breve termine”. Su Gauri il passato continua invece ad incombere, resta dentro di lei che finisce per sentire solo “il semplice guscio dell’esistenza”.

Jhumpa Lahiri, La moglie, Guanda 2013, pp. 424, euro 18,00

Jhumpa Lahiri,  L’interprete dei malanni, Guanda 2003

Jhumpa Lahiri, L’omonimo, Guanda 2007

Jhumpa Lahiri, Una nuova terra, Guanda 2008

Eugenio Borgna, L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli 2002

Paul Celan, Poesie, Mondadori 1998

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