25 giugno 2011. Il Professore si fissa al colletto della t-shirt il piccolo microfono e dice: «Incominciamo». Sono le 11 del mattino. A Roma si muore di caldo. Un’aria di scirocco, umida e greve, vela la città. Dai vetri dello studio, in cima a Monteverde, la distesa dei tetti appare confusa, indistinta. Sul terrazzo sono rimasti – vuoti – i bicchieroni dell’orzata di mandorle, offerta come benvenuto, e consumata in un profluvio di parole, ricordi, interrogativi. I fuochi incrociati che si sono accesi in Libia e sulla Libia infiammano il Professore.
Il Professore è un uomo nato negli anni Venti. Siciliano. Patriota, a suo modo. Devoto al suo lavoro. Con un profilo maschile ben definito, dove le priorità non contemplano molta vita privata. In ottantacinque anni di vita, attraversa la seconda guerra mondiale e il fascismo; gli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta del secolo scorso. Gli inquieti anni Ottanta e il degrado che si insinua, di lì al Duemila, nelle istituzioni italiane di cui è stato, per sessant’anni e più, fedele, entusiasta servitore.
Lei è una donna. Una scrittrice. Una giornalista acuta e arguta, amante delle cronache che si dipanano sugli sfondi della Storia – dove tutte le storie, anche le più minute, acquistano un senso preciso.
La voce narrante è del Professore. Sue le storie che narra; suoi i commenti a quel film della Storia che ha avuto il privilegio di vivere e, adesso, il gusto di testimoniare. Lei, la scrittrice, lavora discreta ma decisa: di un racconto che sarebbe potuto diventare noioso (specialmente per noi profane/i), pieno com’è – anche – di dettagli tecnici, specialità se non specialismi (e tanti nomi, tanti fatti), fa con mano abile il romanzo di una vita: ricco di emozioni, persino con momenti di autentica suspence.
La voce di Liliana Madeo non si sovrappone alla voce narrante del professor Antonino Di Vita, archeologo e storico, già direttore della prestigiosa Scuola Archeologica Italiana di Atene (e molto, moltissimo altro: vedere nel libro le pagine dell’appendice). Madeo presta la sua penna al Professore: e la voce di Antonino Di Vita risulta autentica, viva, coerente dalla prima all’ultima pagina.
Madeo ricompone il flusso disordinato di ricordi del Professore in scene che si dipanano disegnando una trama… E persino gli oggetti prendono vita.
“Nel grande salone delle statue – già sontuoso vestibolo del museo – la prima cosa che mi colpì fu una scodellina di terracotta della prima età del ferro adagiata sulla savonarola utilizzata dai custodi di servizio. Sembrava che una mano delicata ve l’avesse posata […]”.
È il 1966, alluvione di Firenze. Il Professore è appena tornato dalla Libia, dopo la cruenta rivoluzione di Gheddafi. Là – dove resterà il suo cuore, fino all’ultimo giorno della vita – emergono mausolei dalla sabbia che i venti spostano in continuazione; le persone collaborano non in base alla provenienza etnica, ma per una comune passione. La stessa che fa comprendere al Professore anche un gesto per lui disgustoso (stavolta siamo a Creta):
“Contemplò il pezzo di carne, gocciolante e odoroso. Quindi lo addentò. Soltanto allora me lo avvicinò alla bocca. Avrei voluto essere dieci metri sottoterra per non mangiare la carne di capra, e per di più sbavata dal mio ospite. Ma capii che quei gesti erano dettati da un cerimoniale antico […]”.
La penna si posa lieve e incisiva su eventi indimenticabili, curiosità, misteri. E il racconto offre deliziosi brividi d’ignoto per mondi perduti, che la globalizzazione ha divorato.
Liliana Madeo, I racconti del Professore. Antonino Di Vita, Iacobelli editore, Roma 2013, 163 pagine, 13 euro
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