Da tempo desideravo andare a Lampedusa. Quante volte il mio immaginario ha fatto contatto con quel luogo. Il dolore per le tante vite di migranti che attraversano il mare Mediterraneo e arrivano a toccare terra “sull’isola”, è divenuto parte della mia vita materiale. Affrontare l’argomento senza essere assorbita da pensieri d’altri, che non partono da me, è divenuta una mia necessità.
Alcune donne della rete delle Città Vicine, dal 2011 vanno a Lampedusa per avere un’esperienza diretta con delle e dei migranti e con abitanti di quella isola. Quest’anno ho deciso di partire con loro, in particolare con Anna Di Salvo della Città felice di Catania. Dalla loro prima vacanza politica Lampedusa mon amour sono riuscite a fare mostre, incontri, concerti, video con donne e uomini della rete e con abitanti dell’isola, con associazioni come Askavusa e Colors revolutions, sviluppando delle relazioni significative.
Andando con loro potevo stare a contatto con altre donne dell’isola, e così vivere autonomamente la conoscenza del luogo e degli abitanti. Inoltre potevo scambiare la mia esperienza, vissuta attraverso il Forum Antirazzista di Napoli, di migrazioni delle nostre terre con quella di altre/i.
Quest’anno per il Lampedusainfestival (25-30 settembre) si trattavano due argomenti in rapporto tra loro: migrazioni e militarizzazioni.
Vivo nella città di Napoli e con la questione “rifiuti” ho conosciuto la dimensione di espropriazione della propria terra: abitare un luogo senza poterne decidere le sorti con altri/e. Questo mi ha permesso di percepire più chiaramente la sensazione di non riuscire a gestire neanche i miei cambiamenti.
Quei migranti, che con grandi pericoli attraversano il mare Mediterraneo, il mare che tocca le coste delle nostre amate terre, un mare che crea relazioni tra genti, popoli e soggettività, mettono in evidenza in forma macroscopica il mio dolore. Stavo perdendo contatto con la mia terra, la mia città, e se non spostavo il mio corpo, non riuscivo ad avere idea di cosa mi stesse capitando.
Allora mi sbilancio ai confini, sui margini, verso il punto estremo dove può accadere altro; dove il coraggio, il dolore di altre donne ed uomini potrebbe incontrarsi con la mia esperienza di donna occidentale, cosiddetta tutelata. Pertanto mi sono sporta: già mi era capitato, con la rete delle Donne in nero, di andare in terre di confine come Israele e Palestina, per capire direttamente i perché di violenze e di guerre, che sento solo avvicinarsi, ma fortunatamente non vivo nella realtà. Dall’incontro avverto la presenza di altri/e che stanno vivendo gravi conflitti. Avviene uno scambio e così le violenze di emigrazioni, di perdite delle proprie terre, di fughe da guerre e da sottomissioni, diventano una reale esperienza di qualcuno/a che si rende visibile ad altri/e.
Quando la mia terra è stata disseminata di rifiuti tossici, quando i sacchetti di spazzatura inondavano le nostre strade, mi sono dislocata cercando collettivi di donne e uomini, come le Donne di Acerra, portandomi lì dove la terra era veleno, lì dove la gente sentiva per prima la ferita della finzione di essere curata, e tra quei corpi provavo a interpretare quello che mi accadeva, in una relazionale con altre/i. Da lì il mio sguardo è cambiato, vede ciò che non era visibile: la vita altrui.
Arrivata sull’isola, oltre a visitare strade, mare, coste, vedo il muretto al Porto dove sostano ammassati migranti e barconi, proprio quello che era apparso nello schermo del mio televisore. Da piazza Castello si può vedere il mare e le barche di Lampedusa, lì mi incontro con un gruppo di mamme dell’isola, spesso riunite per discutere i problemi della scuola pubblica, e con donne della rete delle Città Vicine. Abbiamo iniziato a realizzare una performance artistica sul desiderato tema “Porta della vita”. L’installazione è stata a cura di Anna Di Salvo e Rossella Sferlazzo, Citta Vicine e Colors Revolutions: un’opera d’arte che è la prosecuzione di un percorso relazionale di scambi e pensieri iniziato l’anno scorso con la realizzazione della mostra itinerante Lampedusa Porta della Vita. Si è fatta una porta dove da un lato c’era il mare e dall’altro i desideri di tante donne e di qualche uomo: scuola, ospedali, ambiente, riciclo dei rifiuti, case, orti, splendidi fondali marini, vita colorata, e non solo morte disperata di esseri umani e terra.
Anche con donne di Lampedusa, donne del sud, ritorna quella sensazione che avevo sentito con altre nella mia città: orrore e bellezza erano quasi inseparabili. La bellezza dei luoghi amati si invischiava, si intrecciava all’orrore, alla violenza, al dolore, all’abbandono, alla schiavitù, all’espropriazione. La ferita che ognuna/o si procura nel vivere il contrasto apre al sentimento d’amore per la propria terra.
Andando verso Lampedusa si scopre la complessa vita di tante donne che cercano di far fronte a quello che a loro sta accadendo. Una complessità femminile che si trasforma in “preziosità”. Nell’emergenza degli sbarchi e dei naufragi dei/delle migranti alcune di loro hanno esercitato vera accoglienza, ospitando lo straniero, la straniera. Di questa complessità dei nostri territori, delle migrazioni e della militarizzazioni delle nostre terre, si è discusso durante un incontro pubblico all’Area protetta, compreso nel programma del festival.
Si è parlato dell’abitare tra altri/e una casa, un corpo, un ospedale, una scuola, un centro storico, un paese, uno stato, un mondo. Si è parlato di abitarlo, questo mondo del quale si desidera avere una visione originale, in relazione con mamme, No Muos, No Tav, con donne che della propria differenza hanno fatto pensiero per amore del mondo .
Si è anche presentato il documentario “Orizzonti mediterranei” delle registe Pina Mandolfo e Maria Grazia Lo Cicero che, mantenendo Lampedusa sullo sfondo, offre drammatiche testimonianze delle difficoltà affrontate da donne e uomini migranti nei loro “viaggi della speranza” e della tragedia di donne vittime di tratta.
Il Lampedusa In Festival è stato vinto dal documentario The Land between di David Fedele. La terra di mezzo, quella striscia di terra che è la frontiera del Marocco da un lato e della Spagna dall’altro, e poi mare. Quando alcuni tentano di scappare dalle disperazioni vengono bloccati e restano imprigionati nella terra di mezzo, né di qua, né di là. Storie terribili di esseri umani che diventano fantasmi, con il continuo desiderio di proseguire la propria fuga.
Proprio nell’attimo in cui si cercano le parole per raccontare il dolore del proprio corpo, quella terra di mezzo diventa una reale localizzazione del dire di sé e delle relazioni con chi si interessa alle loro vite. Queste vite ascoltate si trasformano in conoscenza.
Invito alla lettura di un articolo di Angela Putino, La terra di mezzo, «DWF» n.12 del 1990 dove tra l’altro scrive: “terra di mezzo”, non come ciò che non è né questo né quello, ma come ciò che, localizzandosi, sa di questo e di quello e li perimetra a partire dal suo perimetro, disloca (p.61). Dislocando me posso guardare altre vite, ascoltando questi racconti so ciò che non sapevo: della loro esistenza oltre il dolore ed anche della mia relazione con la loro esistenza, di quanto sono e siamo prossimi all’africana/o in quanto “vite” del sud.
Lo scritto di Angela diventa espressione del reale, esperienza. Le vite disperate d’orrore e di bellezza, diventano maestre e maestri di vita.
L’ultimo giorno con Rosalba, la mia amica donna in nero che ha voluto fare con me questo viaggio, abbiamo visto una mostra nel palazzo dell’ex Anagrafe: Viaggio invisibile. Odissea visionaria, audio libro del Teatro Sonoro, Zemrude. La mostra è come un libro che si srotola, un film di carta, una fisarmonica che si apre ed escono le scene sonore di un viaggio: del ritorno in Gallura dopo vent’anni d’assenza. Una mostra piena di grazia, voci, scene, disegni, una visione di luoghi che ti si apre davanti e delicatamente li segui. Una mostra itinerante: se l’incontrate, non perdetevela. Ci sono anche due donne che vi offrono suoni, rumori e immagini della mostra racconto: Arianna Fumagalli e Daniela Diurisi.
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