Sono cresciuta infarcita di cunti, le cui protagoniste erano bambine astute, ardimentose e vincenti nella competizione coi maschietti. Come Rusina, la mia preferita, che in groppa al mulo Paolino attraversava sette fiumi sette valli e sette mari, fino in Portogallo, per salvare il reuzzo un po’ scemo, caduto in disgrazia, e diventare regina. Erano tutte così le bambine dei cunti, caparbie e volitive, che, non avevano paura di nessuno, sapevano districarsi nelle situazioni difficili e difendersi da sole. Niente a che vedere con la passività e l’arrendevolezza di certe figure femminili della letteratura siciliana e non solo. Ad autorizzarle ad andare per il mondo, per dare una svolta alla loro vita, e magari anche alla famiglia, altrimenti destinate entrambe a soccombere, era spesso la madre.
Forse perché Rusina, e con lei molte altre, non era “figura delle favole”, ambientata in un mondo lontano, ma figura coi piedi ben piantati sulla terra, era insomma verosimile incontrarla nel viottolo di campagna, dove abitavo; forse perché anch’io andavo talvolta in groppa al mulo di mio nonno ; o forse sarà per l’incipit dei cunti – “si cunta e s’arricunta e si continua a cuntari” – che diversamente dal “c’era una volta in un tempo e in un luogo lontano”, mi avvertiva fin da subito che nulla c’era d’inventato in quel racconto, ma solo fatti successi ad altri che si tramandavano, di certo su di me bambina l’identificazione non dichiarata con la protagonista – “se lo ha fatto lei lo posso fare pure io e diventare regina” – ha funzionato. Il messaggio del cunto, l’intento educativo di non abbandonarsi all’impotenza e reagire al pari di un uomo, se non addirittura meglio, dev’essere riuscito, se la mia vita da adulta ha preso una piega diversa dal destino che negli anni cinquanta la società contadina del sud assegnava alle bambine di un povero borgo di campagna.
In queste due scelte ragionate: da un lato l’incipit in forma epistolare – “caro lettore, cara lettrice che metti il naso tra le mie pagine per indagare la mia ancor breve vita” – che risuona al contempo come invito accattivante, non senza rischio anche per chi legge, a seguire l’avventurosa narratrice senza lasciarsi ingannare dalla sua “veste lunga fino ai piedi e dal corsetto sui ponti delle navi, tra la terra e il mare, uragani e arrembaggi”; dall’altro lato nella scelta di una storia verosimile ambientata nell’Inghilterra dei primi del settecento, sta la potenza di Susan la piratessa. Una favola di Carola Susani edita da Laterza nella nuova collana per ragazzi Celacanto – “parole da leggere, in silenzio o ad alta voce, storie da vedere, mondi da esplorare pensata per parlare di storia senza mai perdere il gusto del racconto, dell’avventura, dell’immaginazione”.
“Un libro per ragazze e ragazzi che fa lo sforzo di raccontare la storia passata al vaglio della letteratura”, ha detto l’autrice in un’intervista. A rendere la storia più “vera” le illustrazioni coloratissime, e a tutta pagina di Simona Mulazzani.
Le ragazze pirata, come Susan, sono infatti storicamente esistite. Pare anzi che Susan Smith nata a Putney, un sobborgo di Londra dove “i soldati della Rivoluzione inglese hanno discusso di libertà e di giustizia”, si chiamasse nella realtà Mary Red, una delle tante “che si incontravano navigando, vestite da uomo per comodità in battaglia”. A vestire Susan da uomo tagliandole i lunghi capelli “che sembravano di paglia” e facendole indossare i vestiti del fratello morto, è la madre per sottrarla alla miseria aggravata dalla chiusura dei campi comuni. “Ora sei Jim, cerca lavoro a Londra” le dice.
Ma Susan sogna il mare, i galeoni, sogna di avere un giorno sulla sua pelle le ferite dei marinai come lo era suo padre, e che a lei sembrano “segni di gloria”. Le piace indossare i pantaloni, ma dopo tanti lavori umili nelle botteghe della capitale, e non pagati, decide di arruolarsi. “Meglio soldato che servo”, pensa Susan. Di soldatesse che durante la guerra di secessione si arruolavano travestite da soldato, non molte, ma sufficienti a formare un battaglione, ce n’erano già. Susan dunque si arruola, nascondendo la sua vera identità, e combatte nei paesi baschi. Uccide se c’è da uccidere, anche se il sangue degli esseri umani è altra cosa da quello visto lavorando dal macellaio, ma il suo sogno è sempre andar per mare. Ci riuscirà, finita la guerra, imbarcandosi su un mercantile che trasporta schiavi. Dall’Africa all’Atlantico, vive una vita durissima, “carne da cannone con poco cibo e poca acqua”, la pelle squamata, e botte. Mentre sulle navi dei pirati, come Drake e Morgan, a bordo sente dire che si beve rum e si mangiano salsicce.
Susan, caparbia e determinata come è, riuscirà durante un arrembaggio ad imbarcarsi sul Jolly Roger, un vascello a tre alberi “con la bandiera nera e bianca scossa dal vento”. Scoprirà così che sulla nave dei pirati, regole contro le donne a bordo non ce ne sono, sul ponte razzolano le galline araucana “che fanno le uova azzurre e verdine”, si mangia tanto da vomitare, c’è un Consiglio formato da tutti i marnai che decide alla pari, e c’è pure una quota di bottino riservata ai pirati infortunati.
Susan è impaziente non solo d’imparare a governare una nave, ma soprattutto di combattere, invidia “le urla di dolore e le dita tranciate dei suoi compagni”. Finché il suo giorno fortunato arriva. Beve rum per caricarsi e si lancia sui nemici all’arma bianca fino a che la camicia si strappa e si vede che è una donna. Pensa “sono morta”, e invece i pirati la portano in spalla ammirati che fosse una donna con tanto coraggio. Da quel giorno vestirà, quando vuole, da donna.
A Susan il coraggio non è mai mancato. Gridava “all’arrembaggio!” come i pirati maschi, diceva le menzogne per sopravvivere, si vendicava dei torti subiti e non si faceva scrupoli a giustiziare i vigliacchi. E tutti la rispettavano. Quando durante un arrembaggio una ragazza le guardò il seno ridendo con disprezzo, lei l’afferrò per il collo fino a soffocarla, e a salvare la poveretta sarà il quartiermastro.
“Se qualcuno mi avesse privilegiato perché ero una donna gli avrei spaccato il muso con un pugno, così pure se mi avesse infastidito. Ma nessuno ci ha pensato mai”, tiene a sottolineare la narratrice.
La sua vita da pirata finirà nel 1717, quando la corona inglese bandisce un’amnistia in preparazione della guerra della Quadruplice Alleanza contro la Spagna. Aprirà una locanda e manderà una parte del tesoro accumulato, alla madre, come riconoscenza per averle quel giorno tagliato i capelli e fatto indossare gli abiti del morto “rimettendola per la seconda volta al mondo”.
Una favola moderna, questa di Susani, che fa paura agli adulti. Come il romanzo precedente Eravamo bambini abbastanza. Un viaggio picaresco e insieme rito d’iniziazione di una banda di ragazzini forti sporchi e coraggiosi, dove le bambine si comportano al pari dei maschi, hanno la voce cupa che sembra un lupo, e ammansiscono con lo sguardo bestie feroci.
Entrambe le favole, dunque, “politicamente scorrette”, o comunque che pongono domande impreviste e di certo non tradizionali su come educare le future donne rispetto ai modelli correnti, che da un lato richiedono donne non più passive ma protagoniste nel lavoro e nella politica, al pari di un uomo, ma dall’altro le vogliono inermi e bisognose di leggi e di tutela quando entra in gioco il corpo, il suo controllo e la sua difesa.
Ancora un invito da parte dell’autrice a guardare il mondo attraverso gli occhi dell’infanzia, “un tempo simile alla ricerca libera dell’artista, non ancora soggiogato dalle costrizioni degli adulti”.
Carola Susani, Susan La Piratessa Editori Laterza, Roma 2014, 60 pagine, euro 18,00
C. Susani, Eravamo Bambini Abbastanza Minimum Fax, 2012, 211 pagine euro 13,50
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