Noi, questa è la nostalgia

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Non è un’analisi del ’68, né del movimento femminista – “l’incontro è stato breve, non ci siamo piaciuti” – né del fenomeno del terrorismo, ma il racconto di una formazione, il percorso di liberazione di una giovane donna dalla famiglia e dai codici sociali, come del resto per molte altre in quel tempo. Al centro dell’autonarrazione infatti, negli anni fra il 1968 e il 1977, è la scelta di andare a vivere da sola, senza soldi: se la famiglia è un’istituzione asfittica, sotto attacco in quegli anni, il nodo è ancora più gravoso quando si è figlie di un uomo politico importante del Pci, come Emilio Sereni, di origini ebraiche. Una famiglia ingombrante a cui la scrittrice ritorna spesso, con dolore, con rabbia, con tenerezza,con senso del dovere, ed è proprio questo racconto che si dipana senza nascondere paure, incertezze, fragilità e contraddizioni, in un andirivieni fra l’io e il noi, a coinvolgere chi legge. Un nodo che non è facile dipanare, anche se necessario, ed infatti la scrittrice in una intervista nel blog di Barbara Romagnoli spiega che era convinta di essere una donna nuova, diversa radicalmente dalle madri ma si rende conto poi di essere stata solo “abbastanza emancipata”. Clara Sereni affronta così, ancora una volta, radici e legami della propria vita con coraggio, raccontandoci il percorso della sua indipendenza in quella casa “in cima a quattro piani di scale a chiocciola” senza riscaldamento, fra scarsi mezzi, lavori precari, militanza politica ed esperienze sessuali (“fare l’amore era solo il modo più diretto per conoscersi e sentirsi insieme”), passioni politiche, in una sorta di autobiografia personale e collettiva legata ai festival del cinema e dentro la musica popolare, nel gruppo de L’Armadio: entrare nel Nuovo Canzoniere era “un sogno”, poi l’amicizia con Giovanna Marini e Luigi De Gregori: di quelle notti ricorda film, libri e tante canzoni di protesta “per mischiare con le voci le vite e un po’ per farci coraggio”.

Pochi soldi dunque, molti amici, manifestazioni di piazza, discussioni, il mancato suicidio per il grande amore, e i primi tentativi di scrittura fino alla costruzione di una coppia aperta senza cedere alle convenzioni:  “Non mi importava di niente, non mi preoccupavo di niente: direi che ero felice, benché la parola suoni anche a me eccessiva. Ero piena di me. Poter dire “casa mia”. E poi lì, a via Ripetta, la strada dove avevo trascorso il primo Capodanno adulto, di scoperta e di politica (e di innamoramento infelice, ma questa è cosa che mi ha accompagnato così a lungo che non vale la pena di star lì a raccontarla). Il futuro era un cantiere aperto, molte e grandi cose da fare”.

Crescono le utopie condivise, prorompono le lotte per il divorzio e l’aborto, ma compaiono sulla scena le Brigate Rosse, “compagni che sbagliano, comunque figli e fratelli nostri anche se sbagliano”. Alla manifestazione per l’uccisione a Bologna di Lorusso (1977), la violenza esplode mentre la polizia massacra e massacrati si sentivano anche Clara ed il suo gruppo, “non con lo Stato, non con le Brigate rosse, non con l’Autonomia, non con i provocatori quali che fossero: soli con noi stessi”. Alla tensione politica si aggiunge il dolore per la morte del padre: nel corteo sono insieme tutti, “gli amici di prima, di ora e di allora” dal Pci, al Manifesto, a Lotta continua a Potere operaio: “Un momento di tregua dagli scontri politici di quei giorni: tregua, ma all’ombra di una bara”.

La vera nostalgia si questo romanzo/diario è direi rivolta al nostro presente già quando nel 1969 scrive: “continuavamo a cantare…nessuno ci avrebbe aperto le porte del potere, nessuno ci avrebbe regalato niente senza una lotta di tutti. Dura. Continuo a scrivere “noi” perché nessuno si pensava da solo. Se dovessi elencare tutti i nomi non ne verrei a capo, molti li ho dimenticati o hanno preso altre strade. Non ho mai rimpianto i miei vent’anni, comunque difficili: la nostalgia è sempre e soltanto per quel “noi” spentosi via via e divenuto ora isolamento”. Ma le righe finali aprono ad un futuro incerto ma con speranze “intatte” che portano ancora ad interrogarci sull’oggi.

           Clara Sereni dopo quegli anni ha continuato, in modi diversi, nonostante la complessità del suo quotidiano, a fare politica, una politica che – ha sempre sostenuto – deve anche misurarsi con la sofferenza, individuale e collettiva, guardando alla realtà dal punto di vista degli ultimi e recuperando un senso etico del fare. Ma è soprattutto la scrittura intesa come fatica e desiderio – che già appare in questo libro con gli esperimenti sulla fantascienza – a diventare poi centrale: “io so di dovere molto al movimento delle donne, a partire dalla scrittura”. Scrivere infatti significa la sensazione magica – mettendosi in gioco – di poter dare ordine, con le parole, al mondo: “mettere ordine nel mio mondo.. e poi cambiare quello di fuori”.

“La doppia molteplicità, della vita e della narrazione, può essere compresa se entrambi i termini vengono concepiti come continue metamorfosi, in osmosi l’una con l’altra” (Passerini). Clara Sereni con questo libro riconosce la valenza emozionale del ’68, spesso trascurata, con la liberazione affettiva e l’esplosione delle passioni proprie di quella straordinaria stagione, contro la diffusa riproposizione, banalizzante e mistificatoria, violenza-movimento. Il ricordo passa per la pelle, le emozioni si riversano nella scrittura comunicando a chi legge la sensazione di una rilettura della storia in continua ricomposizione fra memorie parziali anche dissonanti, grazie ad uno sguardo intenso sugli anni Settanta, che intreccia esperienza affettiva e storicopolitica.

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Clara Sereni, Via Ripetta 155, Giunti 2015, pp. 199, euro 14,00

Dialogo con Clara Sereni: da un grigio all’altro, Di Renzo, 1998.

Luisa Passerini, “Scritture delle donne e autobiografie femministe”, Primapagina, marzo 1999.

www.barbrararomagnoli.info/744

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