Trieste. L'illusione dell'ignoranza

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3118444-9788845278297Daša Drndić (1946), è autrice di una trentina di sceneggiati radiofonici, saggi, prosa e poesia. L’attenzione del pubblico è attirata soprattutto dai suoi romanzi con temi socialmente ed eticamente attuali: Canzone di guerra (1998), Totenwande (2000), Leica format (2003), Doppelgänger (2005). Pluripremiato e tradotto in varie lingue è il romanzo Sonnenschein (2007), che in inglese e italiano porta il titolo Trieste. Dopo essersi laureata in inglese all’Università di Belgrado con una borsa di studio Fullbright l’autrice ha continuato il suo corso di studi in Teatro e Comunicazione negli Stati Uniti, ha lavorato presso la Radio di Belgrado fino allo scopia della guerra degli anni Novanta, quando ha cercato rifugio prima in Canada, per poi tornare a Rijeka/Fiume, dove vive oggi.

Il romanzo Trieste rappresenta il culmine di quei temi che per oltre un decennio hanno assorbito le energie dell’autrice croata. E quante energie! Quanto tempo e quanta perseveranza sono stati necessari per raccogliere informazioni, trovare documenti e anche testi letterari affini mediante i quali avvicinarsi meglio ai drammatici e tragici argomenti del passato, trovare le angolazioni giuste per approfondire i temi prescelti. Il lettore si trova davanti a un fiume di dati biografici, a una foresta di alberi genealogici, poi è piazzato di fronte a tante nozioni enciclopediche, ai riferimenti degli scrittori che l’avevano preceduta nel trattare argomenti simili. È stata enorme anche la pressione sotto la quale viveva e vive questa donna che da anni sta entrando nelle vicende più oscure e più tragiche del periodo durante e dopo seconda guerra mondiale, fino all’età nostra. Mi sono chiesta più volte: come regge la sua schiena, come riesce a sopportare il peso di quelle vicende oscure che certi uomini hanno provocato coinvolgendo l’umanità intera.

Haya Tedeschi è la protagonista del romanzo Trieste. Figlia di un ebreo convertitosi al cattolicesimo negli anni Trenta, si innamora di un nazista e ha un figlio da lui. Il bambino le viene tolto e inserito nel programma Lebensborn[1]. Haya ha pagato cara la guerra, le ideologie, le leggi razziali. La sua vita era difficile ma in nessun modo, e in nessun momento, tragica: il suo comportamento, insieme al comportamento dei membri della sua famiglia non hanno l’aura della tragicità. La famiglia, invece di fungere da scudo e baluardo che offra l’appoggio morale alla giovane Haya e garantisca la sua identità, si presenta come qualcosa di finto e di falso, un ambiente dove regna l’ipocrisia, dove il pater familias si adatta perfettamente alle usanze e al comportamento ipocrita, chiudendo gli occhi davanti alla realtà, privo del coraggio di sentirsi libero. Il destino della protagonista, che si comporta come i propri familiari, non suscita pietà da parte dell’autrice, per cui gli argomenti tragici sono narrati in maniera fredda, oggettiva e con una certa distanza. Daša Drndić non parla come un’autrice cosiddetta ‘al femminile’, lei è un’intellettuale molto preoccupata per il destino umano che così spesso sacrifica la vita dell’individuo agli interessi di certe idee ipotizzate “superiori” (la razza, la nazione, lo Stato…). Questo suo stile apparentemente freddo, aspro, senza una traccia di commozione serve a sottolineare quanto sono seri i problemi di cui ci parla, quanto aspra dev’essere la voce che parla di tutto quello che era ed è disumano nella società di ieri e di oggi.

Nella presentazione di questo romanzo ai lettori statunitensi, il critico del “New York Times Book Review” scrive: “She is writing to witness, and to make the pain stick”. Il male, il dolore si appiccicano al lettore, come se fosse sporcizia, fango… Ovviamente, Drndić non scrive per divertire il lettore, ma per testimoniare l’accaduto e per far riflettere anche sulla nostra vita quotidiana, sui valori etici e sulla loro mancanza lungo tutto il Novecento. La sua è una narrazione ben documentata e allo stesso tempo altamente suggestiva. Il lettore è affascinato dal valore documentario dei suoi romanzi, e ancora di più dal suo punto di vista così retto, eticamente alto, che non manca mai nelle sue opere.

Drndić non sottovaluta mai quello che gli altri hanno già scritto sui temi che la interessano. Il conglomerato di nozioni e di sentimenti personali e “oggettivi”, scientificamente e artisticamente provabili, rendono la sua prosa abbastanza complessa per i lettori. Come esempio potrei citare un frammento, quando nel mezzo del racconto sul difficile ritorno della famiglia Tedeschi dall’Albania a Gorizia nel settembre del 1943, l’autrice inserisce prima alcuni riferimenti al romanzo Peščanik (Clessidra) di Danilo Kiš (che per primo tra gli autori jugoslavi aveva usato abbondantemente e parallelamente i fatti, i documenti storici e testi enciclopedici mescolandoli con la finzione); poi da un certo momento in poi, invece dei membri della famiglia Tedeschi, il protagonista del frammento diventa proprio Eduard Sam, protagonista di Peščanik di Kiš. Prima di conoscere la sorte della famiglia Tedeschi durante il viaggio dall’Albania a Gorizia, l’autrice inserisce un altro frammento, una citazione da un documento che riproduce una parte dell’interrogatorio svoltosi, forse a Norimberga, dove l’accusato è un certo Walter Stier, il cui mestiere era di preparare gli orari ferroviari dei treni della morte. Anche Eduard Sam, personaggio di Kiš fu autore di orari dei treni, di quelli però dei tempi di pace. Quando Stier durante l’interrogatorio nega il proprio coinvolgimento e la propria colpa, solo allora l’autrice torna di nuovo ai protagonisti del suo romanzo, alla famiglia Tedeschi e scrive: “La famiglia Tedeschi continua a vivere nell’illusione dell’ignoranza. Quelli che sanno cosa sta succedendo, non ne parlano; quelli che non lo sanno, non fanno domande; quelli che domandano, non ricevono risposte. Allora, è così oggi. La famiglia Tedeschi non sa, non domanda, di conseguenza nulla può sapere, perciò non si scompone più di tanto.”(p. 89)

Oltre che mischiare e mettere allo stesso livello i dati e la finzione, storie vere e illusioni, il romanzo di Drndić rappresenta anche un amalgama di piccole storie, storie private, destini di gente semplice e, allo stesso tempo, la grande Storia, soprattutto la storia della Seconda guerra mondiale. L’autobiografia e la storiografia sono compresenti e si intrecciano tra di loro.

            Davanti al lettore italiano adesso si trova un romanzo asciutto e stimolante, scritto non per insegnare, ma per (ri)creare un’esperienza storica che vorrebbe incitare il lettore e la lettrice ad immergersi, a ritrovarsi in quel passato per poter riflettere sul mondo di oggi.

Daša Drndić, Trieste, Bompiani, Milano 2015, pp. 448, euro 19,00.

Altre opere della stessa autrice: Marija Czestochowska još uvijek roni suze: umiranje u Torontu – M.C. piange ancora: la morte a Toronto, 1997; Canzone di guerra, 1998; Totenwände, 2000; Leica format, 2003; April u Berlinu – Aprile a B. 2009; Belladonna, 2012.

Tra le varie interviste con Daša Drndić forse la più esauriente, insieme con le varie foto dell’autrice si trova sull’indirizzo:

http://www.bookaholic.ro/interview-with-dasa-drndic.html

[1] Una gran parte del romanzo è dedicata alla descrizione dettagliata di questo assurdo programma di affidare bei bambini biondi, anche se nati dai genitori non ariani, alle famiglie dei veri rappresentanti della razza e farli crescere come veri rappresentanti della razza prescelta e privilegiata.

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