I seni di Amina e le portatrici di bombe

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Nel numero 141 di LetterateMagazine Amina Sboui (in E per arma il corpo) racconta di aver trovato sostegno al suo gesto di mostrare i seni su fb in Nawal al Saadawi, scrittrice e ginecologa egiziana autrice di uno studio sulla sessualità femminile nei paesi arabi che causò il licenziamento dal suo incarico presso il Ministero della Sanità. La conseguente specializzazione in psichiatria porterà la scrittrice ad interessarsi della condizione delle donne nelle carceri del Cairo, dove lei stessa sarà detenuta alla fine dell’81. In carcere conoscerà una detenuta in attesa di essere giustiziata per aver ucciso il suo sfruttatore. Dall’incontro nasce il romanzo Firdaus, una egiziana che sceglierà lucidamente di diventare una prostituta, come lei stessa racconta: “Sapevo quello che volevo. Non c’era più spazio per le illusioni. Meglio essere una prostituta di successo che una santa ingannata. […] Gli uomini impongono alle donne l’inganno e le puniscono quindi per essere state ingannate”.

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Al centro della storia è il corpo di Firdaus, fin dall’adolescenza umiliato violato ingannato e alla fine ritenuto “non rispettabile” dagli stessi uomini che ne hanno abusato.

Il corpo, insieme all’higiab, il mantello nero che lo nasconde allo sguardo del dominatore, è protagonista di molta letteratura araba femminile pubblicata alla fine degli anni ottanta, molto prima dunque della primavera araba.

Coi piedi calca il terreno asfaltato […] una grande angoscia la opprime, è sola, c’è lei e basta […] Lei è tutta avvolta in una stoffa nera, s’intravedono solo mani e piedi; il sudore le bagna il viso, lei solleva il velo nero e si asciuga, quando viene sorpresa da una voce proveniente da un volto che tradisce una rabbia spaventosa […] un uomo la sta guardando in faccia con indignazione e le ordina di ricoprirsi”. (Hana Abdallah al Gahamadi La strada in Rose d’Arabia. Racconti di scrittrici dell’Arabia Saudita).

Corpi umiliati al punto da sentire “che non mi apparteneva più”. Come succede alla protagonista del racconto Corpo di Layla Ibrahim al-Ahaydib contenuto nella stessa raccolta.

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O come il “corpo pesante steso in orizzontale dentro il furgone che fischia e traccia la propria scia attraverso la città bassa […] Un solco all’interno dell’ambulanza che affonda” della Portatrice d’acqua in Donne d’Algeri nei loro appartamenti di Assia Djebar. “Donne assenti a loro stesse, al loro corpo, alla loro sensualità, alla loro felicità” ritratte dallo “sguardo rubato” di Delacroix nel 1832. Corpi prigionieri di “un luogo chiuso rischiarato da una luce che scaturisce dal nulla”. Donne “enigmatiche nel più alto grado” che verranno raffigurate dallo stesso autore dieci anni dopo nella loro solitudine, rassegnate in “perenne attesa sedentaria dentro il suo recinto … estranee ma terribilmente presenti nella rarefatta atmosfera della clausura” (postfazione all’edizione Giunti del 1988).

Della clausura forzata dei corpi dentro il recinto racconta in forma più leggera e ironica Fatema Mernissi in La terrazza Proibita.

Il nostro harem di Fez era circondato da alte mura […] Tutte le finestre davano sul cortile, non ce n’era nessuna che dava sulla strada”. Se era impossibile uscire dal portone principale sorvegliato da Ahmed il portinaio “un altro modo c’era: passare dalla terrazza a livello del tetto. La maggior parte delle donne era in grado di arrampicarsi e saltare […] ma non molte sapevano atterrare con grazia”. Fuggire dalla terrazza non era però eroico come confrontarsi con Ahmed, scrive Mernissi: “non aveva in sé quell’ispirato e sovversivo empito di emancipazione”.

Ma il corpo è al centro della narrativa araba femminile anche come strumento del piacere e voce del desiderio.

Non conosco la mia anima né quella degli altri. Conosco il mio corpo, conosco i loro corpi. E mi basta […] Li ho usati? Ne ho fatto degli oggetti erotici? E perché no? [… A importarmi è solo il mio desiderio. […]. Non ci sono regole. Ascolto solo la mia voce. La voce del mio prezioso desiderio” scrive Salwa Al-Neimi in La prova del miele. “In tutta la mia vita mi sono drogata di letti e di storie. Ogni uomo una storia, ogni storia un letto”. Uomini senza nome, solo soprannomi: il Pensatore, il Viaggiatore, lo Svelto, il Lontano. Poco importa che siano realmente esistiti o semplici “espedienti per arrivare a scrivere questa storia perché non restasse segreta”, ci avverte l’autrice. Romanzo autobiografico dove la protagonista racconta come profittando del suo lavoro nella biblioteca dell’università legge i testi erotici in lingua araba e si convince che “gli arabi siano l’unico popolo al mondo per il quale il sesso è una grazia di cui essere riconoscenti a Dio”. E leggendo scoprirà al-Alfiyya, la Millenaria che “montò” mille uomini, pioniera sapiente dell’emancipazione sessuale femminile di cui i maschi arabi tuttora “parlano con un po’ di timore, una punta d’invidia e molto stupore”.

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Ma torniamo alle donne d’Algeri e alle considerazioni di Djebar, nella postfazione citata, sul potere dello sguardo: sia “l’occhio di colui che domina” che quello del dominato se “spalancato sul mondo esterno”.

Nessun uomo può guardare il corpo femminile al di fuori dalla tribù (fratello padre marito o figlio), a meno che non sia interamente velato. Dal canto suo una donna che si libera dal velo dirà che esce <nuda> ovvero non più protetta, scrive Djebar: “Il corpo avanza fuori dalle mura di casa e per la prima volta lo si sente come <esposto> a tutti gli sguardi: comincia a procedere irrigidito, il passo si fa più frettoloso, l’espressione degli occhi contratta”.

La stessa sensazione che troveremo descritta da Hana Abdallah al Gahamadi nel racconto citato:

Il semaforo è rosso .. sente il rombo di un’auto…si volta. Le si parano davanti due occhi smaniosi in cerca di una donna: le provocano disgusto ma l’uomo non smette di guardare. Lei sa che ora l’uomo comincerà a spogliarla con gli occhi: dal viso fino all’ultimo lembo di carne visibile dei suoi piedi, prima che spariscano nelle scarpe consunte…si muove più in fretta…dovrebbe mostrarsi indignata? Non è nel suo diritto difendere la propria dignità?”

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SORELLA, BADA AL TUO VELO. FRATELLO, ATTENTO A DOVE GUARDI.

Sono queste le citazioni da Khomeini o dal Partito di Dio che Sanaz legge scritte sui muri recandosi a casa di Azar in Leggere Lolita a Teheran. Per l’amica e compagna di lettura Yassi quel velo “non significava più nulla, eppure senza si sarebbe sentita persa. Lo aveva sempre portato. Ma era lei a volerlo?.Non lo sapeva”.

Possibile ladra nello spazio maschile” l’occhio femminile, anche solo uno, “spostandosi da un oggetto all’altro” sembra essere percepito dall’uomo guardiano come una minaccia in quanto lasciato libero di circolare all’esterno può ad ogni istante <sfidare l’esclusività ottica> maschile, scrive ancora Djebar.

Immaginiamoci se poi grazie alle “larghe concessioni del liberalismo” e alla veletta, gli occhi che si spostano sono due …! E se per “un movimento brusco o inconsueto [anche] gli altri occhi del corpo (seno, sesso e ombelico) rischiano a loro volta di essere esposti e fissati […] è la fine per gli uomini, guardiani vulnerabili: per loro è la notte, la disgrazia, il disonore”.

Stante a quanto successo alla giornalista Giulia Innocenzi vittima di pesantissime molestie durante il suo viaggio in Iran, riportato da molti quotidiani, la primavera araba non è riuscita a piantare un tizzone ardente nell’occhio di colui che domina, né a rimuovere il mantello nero dal corpo femminile.

Il velo non ha a che fare con l’Islam … non lo prescrive nessun libro sacro, è solo uno strumento di oppressione del patriarcato in cui tuttora viviamo” afferma in una intervista Nawal al Saadawi che oggi ha 77 anni.

Sanno di profetico in questo senso le parole di Firdaus alla fine del romanzo, in merito alla rivoluzione:

Gli uomini che attendono la rivoluzione, che hanno dei principi, non sono molto diversi dagli altri. Usano la loro intelligenza per avere, in cambio dei principi, ciò che gli altri uomini acquistano col denaro. La rivoluzione per loro è come il sesso per noi. Una cosa di cui abusare. Una cosa da vendere”.

Parole che ci invitano alla riflessione proposta da Gorinelli a proposito del gesto di Amina di scoprire “gli altri occhi del corpo” (seno e ombelico) per usarli come manifesto politico, come unico strumento di lotta a lei rimasto dopo che la primavera araba si è rivelata un’arma spuntata.

In Donne d’Algeri Djebar racconta delle “portatrici di bombe” della battaglia di Algeri che “hanno fatto uscire dalla casbah le bombe come se scoprissero i loro seni”.

I seni come arma, dunque.

Un gesto, quello delle portatrici, “il significato di una rivelazione” che fu poi rimosso, scrive Djebar, rimasto tronco come la parola delle due donne raffigurate da Delacroix che “guardano nel vuoto per comunicarla quasi fosse un segreto sulla cui rivelazione veglia la serva […] Qualcosa di insostenibile e di attuale”.

Cosa? si domanda Djebar nella postfazione. E’ il 1979.

Il mio corpo mi appartiene” sembra rispondere Amina dal suo profilo fb trentacinque anni dopo, con un gesto altrettanto insostenibile e rivelatore.

Letture

Assia Djebar, Donne d’Algeri nei loro appartamenti, Giunti, 1988

Rose d’Arabia Racconti di scrittrici dell’Arabia Saudita, edizioni e/o, 2001

Nawal al Sa’dawi, Firdaus, Giunti, 1986

Fatima Mernissi, La terrazza Proibita, Vita nell’Harem, Giunti,1996

Salwa al-Neimi, La prova del miele, Feltrinelli,2008

Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran, Adelphi, 2003

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