Perché dovrei leggere Hoda Barakat?

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Elisabetta Bartuli, traduttrice dall’arabo, in un’intervista a Hoda Barakat (pubblicata in Libano. Frammenti di storia, società e cultura a cura di Elena Chiti, Mesogea, 2012 e riportata da Mario Valentini sul sito www.minimaetmoralia.it/wp/scrittori-arabi-contemporanei-quinta-puntata/) racconta che la scrittrice libanese ad un ragazzo che nel 2007 le chiede durante un convegno “perché lui che era del Nord Italia avrebbe dovuto leggere la letteratura libanese” risponde che anche lei “non aveva mai messo piede in Jugoslavia, in Albania o in Kosovo” ma avendo letto i libri di Ismail Kadaré, [poeta e saggista albanese], sentiva “di essere là, insieme agli abitanti, mi sembrava di vedere quello che succedeva… e così quella porzione di carta geografica era diventata qualcosa di più di un territorio, si era popolata di gente, di persone, di uomini e donne, di bambini che vanno a scuola”. E conclude dicendo che “se per caso aveste letto un po’ di letteratura irachena, forse non saremmo al punto in cui siamo”.

Una risposta attualissima, considerato quanto oggi “il Libano sia il più esposto agli effetti destabilizzanti del conflitto siriano, dal momento che le relazioni familiari, culturali, religiose, politiche ed economiche esistenti tra i due paesi sono antiche e profonde” (osservatorioiraq.it/) e che mi ha spinto a leggere Hoda Barakat, ospite d’onore del convegno della SIL a Firenze Conflitti e rivoluzione. Scritture della complessità.

Leggi di Beirut e ti viene in mente Sarajevo, commenta infatti Valentini che suggerisce, per capirci di più “sui legami che si possono intessere, attraverso i libri, con altri popoli che vivono situazioni di guerra”, i romanzi del libanese Jabbour Douaihy Pioggia di giugno e San Giorgio guardava altrove, tradotti da Elisabetta Bartuli per Feltrinelli. Due romanzi “maturati in mezzo a un conflitto … che parlano di quel particolare modo, assurdo, incoerente, insensato, drammatico ma con delle punte di comicità, in cui si è umani in mezzo agli spari e ai colpi di mortaio, tra agguati e assalti notturni, quando gli amici diventano di punto in bianco (e senza che sia chiaro fino in fondo il perché) i tuoi nemici giurati”. E ti viene da accostarli, commenta Valentini, “a certe figure di grandi balordi portati al cinema da Emir Kusturica: ridicoli, poetici e stupidi, infantili violenti e prevaricatori quasi in modo surreale ed eccentrico”.

Al centro del conflitto: Beirut “un luogo dove le religioni, le lingue, le appartenenze si mescolano … in un groviglio inestricabile: cristiani maroniti, musulmani sunniti, musulmani sciiti, drusi, alauiti, greci ortodossi, cattolici, e tante altre minoranze si dividono questo minuscolo lembo di terra ai bordi del Mediterraneo [Libano] e questa città complessa e caotica; ogni comunità ha i suoi punti di riferimento, i suoi quartieri storici, le sue roccaforti” (www.quattroappunti.org/2012/05/10/beirut-la-mescolanza/.).

Chi si assume il compito di scrivere di una guerra senza vinti né vincitori, come la guerra civile libanese, durata circa 15 anni (1975-1990) e che fece più di 200mila morti? Si legge sul sito editoriaraba.wordpress.com/…/scrivere-il-presente-il-romanzolibanese come memoria della guerra civile.Probabilmente solo la letteratura” risponde Elias Khoury, il più importante scrittore libanese contemporaneo: “il migliore antidoto all’oblio e alla morte in grado di fornire una chiave di lettura della guerra civile libanese, di restituire la memoria storica ad un presente afasico ghermito da una élite di affaristi, politici e imprenditori che hanno rimosso la memoria della guerra”.

Secondo Khoury infatti il romanzo libanese contemporaneo nasce proprio con la guerra, per non dimenticare. Tali sono i romanzi: Il viaggio del piccolo Gandhi (Jouvence 2001); Yalo (Einaudi 2009), Facce bianche (Einaudi 2007). “Romanzi in cui uccidere è diventata una faccenda talmente ordinaria durante la guerra che la gente si è oramai assuefatta all’indicibile, alla morte stessa”, si commenta nel sito. E infine Specchi rotti (Feltrinelli 2009) che “contiene alcune delle cifre stilistiche ricorrenti del romanzo libanese: la moltiplicazione dei personaggi, proprio come in un gioco di specchi, la pluralità delle storie e dei punti di vista, il continuo andare e tornare attraversando la categoria del tempo”.

Oltre ai romanzi di Hoda Barakat, L’uomo che arava le acque (Ponte alle Grazie. 2003) e Malati d’amore (Jouvence 1997) dove Beirut sembra un cimitero di anime perse in bilico tra follia e sogno, il sito consiglia “le storie al femminile” raccontate da Iman Humaydan in Donne di Beirut (Edizioni La Linea 2011); da Hanan al-Shaykh in Mio signore, mio carnefice (Piemme 2011); da Jabbour al-Douaihy in Pioggia di giugno (Feltrinelli 2010), “una storia ambientata nel Libano del 1957 che sconvolse gli equilibri di una piccola comunità montana, raccontata da più punti di vista e a cavallo del tempo, e che diventa profezia della guerra che si scatenerà due decenni più tardi”. Come la rabbia al vento, di Rawi Hage (Garzanti 2008) e La traduttrice, di Rabih Alameddine (Bompiani 2013); Apocalisse araba, della poetessa Etel Adnan (Semar 2001).

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