Ho visto un pezzo di prato libero che mi piace. Vorrei che mi portassero giù un bel pietrone e vi piantassero ogni anno rododendri, stelle alpine e muschi di montagna. Pensare di essere sepolta qui non è nemmeno morire, è un tornare alle radici. Ogni giorno le sento più tenaci dentro di me…
Parole come presagi e come desideri. Dei tanti desideri inascoltati e imprigionati dalle convenzioni familiari e sociali, quello di morire su un prato forse è il solo che Antonia Pozzi può avere la libertà di riconoscere, ascoltare ed esaudire senza chiedere permessi ad alcuno/a. È il solo a cui può rispondere e che può dare senso alla sua vita, quella più autentica, quella mai vissuta, quella così amata da tremarne: per troppa vita che ho nel sangue tremo…
Certo non è facile raccontare la vita di una donna, anche per il rischio ricorrente di cedere alla tentazione di schemi interpretativi meccanici o di luoghi comuni.
La Storia, per dirla con Elsa Morante, è uno scandalo che dura da diecimila anni. Bisogna stare attente. L’arte e la vita di Antonia Pozzi vanno, dunque, rintracciate più che nei rimandi a vicende clamorose o nell’adesione a movimenti culturali definiti, nelle pieghe di quella vita che non viene raccontata e viene invece fraintesa, nei linguaggi particolari non allineati a quelli dominanti del tempo in cui visse e operò.
Sotto uno sguardo gelido d’inverno, era il 2 dicembre del 1938, la poeta orienta il suo cammino verso l’abbazia di Chiaravalle. Un contadino la troverà il giorno dopo distesa su un prato vicino alla Certosa. Intorno a lei Milano amata e indifferente, brulicante ipocrisia, e la famiglia che le avrebbe assicurato ricchezza in una società tanto alto-borghese e aristocratica quanto perbenista e codina.
L’Università di Milano ha denominato “anno pozziano” il 2008 nella ricorrenza del settantesimo anniversario della sua morte. In molte città si sono organizzate manifestazioni volte alla conoscenza e alla valorizzazione di questa artista straordinaria che disvela la sua raffinata sensibilità e il suo sentire poetico anche attraverso la fotografia. Ma l’evento che più di altri ha celebrato Antonia Pozzi è stato sicuramente il convegno “e di cantare non può più finire” dedicatole dai Dipartimenti di Filologia moderna e Filosofia dell’Università Statale di Milano.
Per la prima volta studiose del pensiero della differenza, nel corso dei tre giorni di convegno, hanno presentato relazioni insieme a studiose e studiosi accademici, intellettuali di diversa estrazione che hanno consentito un approccio pluridisciplinare alla poetica dell’artista.
Un’anticipazione del docufilm di Marina Spada, Poesia che mi guardi, sulla vita e la poesia di Antonia ed un monologo dell’attrice Elsa Fonda sono stati tra i momenti più emozionanti del convegno perché hanno ridato voce e vita a colei la cui opera aveva avuto scarsa considerazione negli anni trenta.
La mia scelta, oggi, non è quella di fare un discorso prefatorio alla poetica di Antonia Pozzi, ma di rafforzare un’attenzione al senso della sua poesia che, come quella di Alda Merini e di tante altre poete, si origina dalla vita della donna, dal tormento di un’esistenza che mette in parola l’impossibilità di un’integrazione nelle modalità e negli schemi di vita e di comportamenti che altri/e, non lei, avevano deciso per lei annullandola come soggetto.
Penso ad un accostamento alla sua opera senza influenze e pregiudizi.
Penso alla possibilità che la mia città, e non solo, dedichi momenti di lettura dell’opera di Antonia Pozzi e di riflessione che, a partire da lei e da noi, analizzi l’attuale condizione della soggettività femminile considerata ancora subalterna in alcune realtà sociali e indaghi le ragioni che spingono molte donne a tacere sulle violenze subite fuori o all’interno dei contesti socio-familiari e, in taluni casi, a giustificare e a sopportare “eroicamente” aggressioni fisiche e psichiche in nome di una presunta fragilità maschile da proteggere e tutelare.
Certo Antonia non ha scelto di morire a soli 26 anni solo perché l’autorità paterna le ha impedito di portare a compimento l’appassionata storia d’amore per Antonio Maria Cervi, suo insegnante di greco, ma questo episodio, centrale nella sua vita di donna corrisposta nell’amore, ne ha lacerato l’anima procurandole una sofferenza acutissima che dalla lettura dei suoi scritti emerge senza ombre. Se pensiamo inoltre che il padre ha negato per vergogna il suicidio della figlia e che, dopo la sua morte, ha manipolato le poesie variandone le parti che davano conto di quell’amore infelice e che ha perfino messo le mani sul testamento, c’è di che inorridire.
Antonia Pozzi fallisce l’appuntamento con la speranza quando si avvia verso quel prato.
Solo qualche giorno prima aveva parlato di disperazione mortale, ma la strada che percorre è quella dalle mille vie tutte percorribili e tutte già percorse; quella che fu già di Woolf, Plath, Sexton, Bachmann, Cvetaeva, Rosselli e tante altre. Quella strada che sembra concludere il giorno, dove sembra che tutto scompaia e dove invece vive la leggerezza di ciò che resiste ancora e dopo la fine dell’esprimersi. E vive altissima l’attenzione al prezzo pagato da una donna quando, restando fedele a se stessa, desidera interloquire con un mondo – come quello accademico in cui Pozzi si muoveva – fortemente connotato da un simbolico maschile universale di cui sappiamo la parzialità, incapace di cogliere l’originalità di un sentire fedele all’esperienza dell’essere donna; un pensiero espresso in poesia con impegno e rigore perché è in gioco la possibilità di stare sensatamente al mondo e di modificarlo
Non si può attingere ai segreti che i/le poeti/e rendono silenziosi, alla dimensione di mistero tesa come la fune dell’acrobata fra un punto e l’altro dell’esistenza.
Si può tremare per paura, per assenza di verità, per durezza, per fragilità, per la consistenza di un mondo che respinge o inghiotte, ma quando la parola poetica ascende dalla profondità dell’anima, allora anche la morte ha la capacità di allearsi agli stupori senza appesantirne il respiro; anche la morte non è più silenzio, ma vita che vive nelle opere e nelle parole chiamate a sostare sulle pagine dei libri.
La poesia di Antonia Pozzi ci indica dove si sta, dove si è giunti, la vibrante attesa di una separazione che come un vento di rara mitezza, malgrado l’acuzie della pena, soffia sul mondo.
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