Per ricordare il 25 aprile pubblichiamo alcuni brani del romanzo di Renata Viganò, pubblicato da Einaudi, uscito la prima volta nel 1949. Giuliano Montaldo nel 1976, anno della morte dell’autrice, ne trasse un film. Agnese nel film era interpretata da Ingrid Thulin
Nell’accampamento
Coi primi lavori nell’accampamento, L’Agnese sentì perdersi in lei quel senso di precarietà che l’aveva tenuta sospesa dal primo passo della sua fuga. Rinasceva l’abitudine alla vita, aveva fame, sete e sonno, come gli altri. […] Quando vide Gim che tirava fuori le pentole, ridivenne donna di casa. Si mise in una capanna, e appese gli utensili di cucina ai pali sporgenti; i piatti e i bicchieri li dispose in fila sulle cassette. Poi riordinò tutta la roba da mangiare, rialzò i sacchi di farina e di pasta con delle pietre perché non prendessero umidità, tese un filo di ferro da una parte all’altra, e vi attaccò le salsicce e i salami. Clinto portò una panca zoppa perché servisse da tavola, riuscirono a farla stare in piedi appoggiata in un angolo. La capanna acquistò un’aria di abbondanza. […] Sebbene avesse passato la notte in piedi, non si sentiva stanca, neppure quando si rifece buio. I partigiani invece, esauriti i lavori, dati i turni di guardia,spegnevano ad uno ad uno le parole nell’oscuro riparo del sonno. […] L’Agnese stava seduta davanti alla porta, e ascoltava, aspettando di avere proprio sonno per mettersi giù. Le avevano lasciato un po’ di paglia raccolta qua e nelle capanne, un letto abbastanza soffice; ma lei era grassa, provava un po’ di difficoltà a star distesa sveglia. Poi era la prima notte, da quando, con lo stesso gesto violento, aveva spaccato la testa al tedesco e diviso in due la sua vita. La prima parte, la più semplice, la più lunga, la più comprensibile, era ormai di là da una barriera, finita, conclusa. Là c’era stato Palita, e poi la casa, il lavoro, le cose di tutti i giorni, ripetute per quasi cinquant’anni: qui cominciava adesso, e certo era la parte più breve; di essa non sapeva che questo.
Vita da partigiani
Di giorno i partigiani dormivano, mangiavano, si distendevano al sole. Il sole era sempre su di loro, bruciava la schiena, anneriva le facce, pesava come un carico sulle spalle. La terra, le canne, la legna secca si riempivano di calore, tutto rimaneva caldo e arido anche dopo il tramonto, fino a quando cominciavano a svolgersi i veli sottili della nebbia di notte, sulla ferma umidità dei canali. Si sentiva a allora l’odore morto degli stagni, odore di muri marci, di stracci bagnati, di muffa, come nelle case dei poveri. Erano sere di luna piena, non belle per le azioni. […] I partigiani rientravano al campo, mettevano le armi nella capanna dell’albero, i sacchi di frumento in cucina, il conto dei morti nella memoria, e si facevano fare il caffè dall’Agnese. Poi si sdraiavano sui loro letti di terra, uguali in casa e fuori, con la testa sul rotolo della coperta. Dormivano aspettando le visite, si svegliavano per mangiare, e tornavano a dormire. Verso sera cantavano, con voce bassa, perché nessuno li sentisse, e il canto sembrasse poco più del fruscio delle canne, un po’ di vento più forte in mezzo alla valle. […] La staffetta portava all’accampamento il pane, il vino, gli ordini, le circolari, la stampa, le notizie da radio Londra. Le notizie erano sempre le stesse:”Continua la vittoriosa avanzata delle nostre truppe. Su tutto il fronte scontri di pattuglie”, e voleva dire che non avevano fatto niente. “Gli scali ferroviari di X […] martellati”, e voleva dire che gli aerei avevano distrutta una mezza città. […] Agosto portò il primo temporale […] L’Agnese si sentiva male, e se ne meravigliava, lei che non conosceva né malattia né medicine. Seduta sulla panca zoppa dentro la capanna, immaginò di essere per morire, che il cuore si arrestasse come una macchina inceppata. Le dispiaceva per quel suo grande corpo pieno di carne, che sarebbe rimasto lì, ingombrante, e per la buca fonda che i compagni avrebbero dovuto scavare: una fatica dura con quel caldo e la terra tanto asciutta. Pensava all’inutilità dei cadaveri, che bisogna vegliare, lavare, seppellire. Sarebbe bello che la morte li disfacesse, come distrugge i sensi, la ragione, la coscienza, la forza dell’individuo, quando uno muore non dovrebbe rimanere niente di lui, una nuvola, un respiro, e il posto vuoto dove è caduto.






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