La fame che si fa violenza

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guardati-dalla-mia-fame-d422Due voci per narrare un linciaggio ad Andria, nel dopoguerra in Puglia: Angus rievoca e immagina sentimenti, figure e momenti; Castellina ricostruisce il clima politicosociale del periodo. Entrambe mettono in luce, con l’invenzione e con l’aderenza ai fatti, quello che la storia ufficiale spesso dimentica o occulta, nel  rispetto per chi è sfruttato, senza giudizi e senza ricorrere al facile appello alla pietà: una rilettura della storia non mistificatoria ma in continua ricomposizione tra memorie anche dissonanti, per far riflettere.

Due teatri: da una parte il palazzo Porro, una famiglia di agrari, con le sorelle  rinchiuse nel loro quotidiano e nell’ossessività del decoro e del comportamento “signorile” fatto di piccoli gesti: ricamo, rosario, album degli antenati; dall’altra la piazza di una terra povera affollata di reduci, slavi, greci, africani, ebrei in attesa di partire per la Palestina, oltre ai  braccianti e sullo sfondo tedeschi e alleati. Le sorelle vivevano da povere, “buone signorine dedite alle opere caritatevoli”,  ma la ricchezza “era dappertutto”, dagli scaloni di marmo agli argenti, una vita monotona, in disparte, movimentata solo dalle visite di un’amica ugualmente ricca – perché costretta a sposare un vecchio benestante –  ma che è inquietata  dalla situazione, consapevole – anche se non ha il coraggio di agire di conseguenza – della fame dei braccianti e del mercato degli schiavi in piazza Catania dove i “mazzieri degli agrari” scelgono chi lavora per quel giorno. E rimane folgorata da un discorso del sindacalista Di Vittorio, ma le Porro sono turbate dai suoi interrogativi, non capiscono che i poveri lavorano per il pane a corpo, in quanto faticano duramente tutto il giorno per mettere in corpo solo poco pane.

Siamo nel 1946, in un susseguirsi di scontri, morti e feriti per furti di grano e “rapine di pane”, conflitti sedati dall’esercito, mentre la fame cresce, perché i borghesi pensano che niente sia cambiato e gli agrari si rifiutano – nonostante i tavoli di negoziato –  di pagare i braccianti che  percepivano “l’attesa messianica di un mondo nuovo”: così in Puglia prevale, a differenza del Nord, il conflitto di classe, “primario”,da entrambe le parti. L’esistenza “color grigio topo, sempre uguale, mai uno strappo alla regola” delle sorelle Porro viene scompigliata – scrive Angus –  dall’irruzione di una cinquantina di “inferociti, un’orda di derelitti” che volevano controllare se nell’abitazione ci fossero armi, ma, non trovando nulla, si scusano andandosene. Ormai la città  tuttavia “era in ebollizione” e il 7 marzo durante un affollato comizio  – che con Di Vittorio, invano atteso, doveva sancire la normalità ritrovata dopo difficili mediazioni – la situazione precipita e lo sparo partito dal palazzo di fronte al Comune (e su cui nessuno indagherà) fa da catalizzatore a una crisi che covava da tempo: “È una provocazione degli agrari, l’ennesima, dopo secoli di soprusi: ne sono certi tutti”. Cosi in molti si precipitano al portone dei Porro e due sorelle, mentre scappano impaurite dallo sparo, sono linciate dalla folla, due restano ferite: “è la fame- scrive Castellina- che si fa violenza e chiede vendetta…Sono colpevoli per storia. Per classe. A infierire sono soprattutto le donne, donne contro donne di diverso destino, a dividerle la fame”.

Il dramma si consuma in meno di mezz’ora, mentre i sindacalisti erano a andati a cercare Di Vittorio e  poliziotti e militari erano spariti. Il giorno successivo Di Vittorio si concentra sul compromesso strappato agli agrari, non parla di quella “follia collettiva” ed anche i giornali tacciono. La forze dell’ordine sostengono che è impossibile rintracciare i colpevoli dello sparo, si limitano ad arrestare casualmente diversi braccianti, considerati “frisulicchi, bestie da soma” e le loro donne, nella difficoltà di  trovare i nomi dei responsabili perché a partecipare “sono stati in troppi, il paese intero”. Al processo dell’8 giugno 1948, centotrenta persone, donne uomini e minorenni, disoccupati e analfabeti, vengono condannati: solo con quel massacro entrano nella Storia.

La fine della guerra in Puglia non fu la rottura epocale del Nord, la storia della regione rimase a sé. Il problema è che, spiega Castellina, fra i partiti di sinistra e le affamate popolazioni “non c’era sintonia”, perché i moti spontanei e violenti rompevano l’unanimismo antifascista del momento. Quando Di Vittorio riesce a raggiungere Andria, parlerà di atmosfera da guerra civile. Infatti la turbolenza durò ancora a lungo in quella terra, alla fine il pane “non occupò più il posto centrale” ma i braccianti non divennero protagonisti di una trasformazione della Puglia. Le reazioni disperate degli affamati, la violenza di soggetti opachi a se stessi nella loro marginalità, non trovano ascolto da una politica che – impegnata nella lotta antifascista e nei governi di unità nazionale – sembra non vederli.

“Non odio – scrive il poeta palestinese Darwish da cui deriva il titolo del libro – la gente/  né la invado./ Ma se mi affamano/ la carne dell’usurpatore sarà il mio cibo/ Guardati/ dalla mia fame/ E dalla mia ira”. Questa affermazione di umanità negata, insieme all’invisibilità di donne e uomini in quel periodo nella Puglia di fronte alla brutalità ed arroganza degli agrari mi ricordano Mahasweta Devi che, situando i suoi racconti di sfruttamento ed oppressione in India, dopo il 1947, quando l’urgenza etica la porta a scriverne, sostiene come quella violenza e quella collera non possono non interpellarci, ieri come oggi.

 

Milena Angus e Luciana Castellina, Guardati dalla mia fame, Nottetempo 2014, pp. 207, ill., euro 15,00

Mahasweta Devi, La preda, Einaudi Torino 2004, postfazione di Anna Nadotti, traduzione di Babli Moitra Saraf e Federica Oddera, 256 pagine, 13 euro

Mahmoud Darwish, Come fiori di mandorlo e più lontano, Epoché 2010

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