Letture estive/ Estranee alla grammatica della storia: eroine indiane della connessione

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cop-7.aspxVale la pena di fondare una nazione? Di amarla, di costruirla, di farne il cemento educativo e civile per le generazioni che verranno? Questa domanda può parere una bestemmia alla luce di due secoli di storia, l’Ottocento dell’irredentismo europeo e della nostra stessa epopea nazionale e il Novecento delle eroiche e sanguinose lotte anticoloniali.

Un discorso generale sarebbe una somma imprudenza.

Io è dell’India che parlo, perché su questa nazione ho riflettuto e studiato e, vivendoci, ho sentito ancora bruciante, a distanza di sessant’anni, la ferita della Spartizione.

“Allo scoccare della mezzanotte, mentre il mondo dorme, l’India si sveglierà alla vita e alla libertà. Raramente arriva un momento nella storia, quando usciamo dal vecchio ed entriamo nel nuovo, quando un’epoca finisce, e quando l’anima di una nazione, a lungo repressa, trova il potere d’esprimersi. È giusto che in questo momento solenne, prendiamo l’impegno di dedizione al servizio dell’India e del suo popolo e alla causa ancora più grande dell’umanità” (Nehru 1949, p. 3).

Come conciliare le parole orgogliose e appassionate pronunciate da Jawaharlal Nehru nella notte tra il 14 e il 15 agosto 1947, che i bambini indiani studiano ancora a memoria a scuola, con la lotta fratricida e genocida che seguì e che, come vedremo, stava già maturando fin dalla primavera precedente?

Purtroppo è più difficile prestare attenzione alle imprese femminili che “fanno mondo” che domandarci se le imprese che “fanno mondo” per gli uomini e per la storia “fanno senso” per noi.

Comincerò dal film di Deepa Mehta Earth (1998), che è la trasposizione di un romanzo di Bapsi Sidhwa, La spartizione del cuore. La protagonista Lenny Baby, la bambina offesa nelle gambe che vive un grande amore, quasi attonito, per la sua splendida bambinaia Ayah (Ayah non è altro che “tata” in hindi, ma, come vedremo, sia nel film sia nel romanzo si fa spesso ricorso a nomi comuni personalizzandoli con la maiuscola, scritta o evocata dal dialogo) chiude l’ultima sequenza del film quando è oramai una donna ultra-cinquantenne. La scena è ambientata in un giardino circondato da statue fatiscenti dei viceré britannici ed è una specie di postfazione alla narrazione vera e propria.

Oltre a ricordare la sua bambinaia e il senso di colpa che non l’ha mai abbandonata per averla inavvertitamente denunciata nei giorni del furore della Spartizione, e consegnata, lei hindu, all’esaltato odio etnico musulmano, quella creatura, l’adulta che è stata la piccola Lenny Baby si pone una domanda cruciale. Quell’opera, pur tanto grandiosa, di lotta per l’indipendenza e conquista dello statuto di nazione, valeva la pena? L’India doveva costare quel prezzo di sangue?

Ecco: l’impresa eroica, l’epopea, la storia, la storia maschile, la potenza di un desiderio di dominio o di libertà, che si esprime anche attraverso il massacro, ha senso che avvenga, ha senso che sia vissuta? Earth si chiude così, con un punto di domanda: l’eroica impresa della libertà, cara agli indiani da almeno un secolo, vale quel costo?

Se allargo l’orizzonte dal film alle tante produzioni letterarie e cinematografiche sulla Spartizione mi pare che si possano disegnare tre figure eroiche dell’epoca: l’eroe maschile negativo, l’eroe maschile positivo e l’eroina.

L’eroe maschile negativo è colui che porta ostentatamente, nella parola e nei segni distintivi del corpo, il messaggio della sua etnia. Con l’etnia si identifica, e questo come sempre è la fonte del dramma: è un guerriero, partigiano della sua stirpe e partecipe del pregiudizio che la sua genia vive. Sarà l’orgoglio per il coltello iniziatico del sikh, o il disprezzo dei musulmani per il politeismo hindu, o quello speculare e sciovinista degli hindu perché non considerano autoctoni i musulmani: ecco, quale che sia il pretesto, fra questi o altri, l’eroe negativo è colui che sta con il clan e, in nome dell’etnia, uccide e cancella. L’eroe negativo è colui che non riconosce la persona e l’individuo.

L’eroe maschile positivo c’è quasi sempre: nella narrazione della Spartizione e anche nel film di Deepa Metha. Ma è l’eccezione, non la regola. È colui che si solleva oltre il pregiudizio e ne coglie l’assurdità e l’inconsistenza. Figura eccezionale nei regimi totalitari, è una rappresentazione umana tutt’altro che ovvia in un continente umiliato dalla povertà e da un lungo colonialismo, durante il quale gli inglesi non si erano mai fatti scrupolo di dividere per imperare.

In Earth è evidente che Gelataio è l’eroe negativo, colui che si identifica anche in modo malizioso e ingannatore con l’etnia, mentre Massaggiatore è l’eroe positivo, è colui che, nella crudeltà della devastazione dell’identità comune, sceglie di non scegliere. Anzi, sceglie l’umano. Difende i sikh perseguitati e decide di non fuggire, di restare al fianco della donna che ama, Ayah, che, come lui, è hindu.

Di frequente nella letteratura della Spartizione, non solo nel film di Mehta o nel libro di Sidhwa, l’azione dell’eroe positivo è un’azione puntuale che si compie nell’atto del morire. Massaggiatore muore, probabilmente per mano del suo rivale, Gelataio, che ha capito che l’altro uomo ha preso il posto più importante nel cuore di Ayah e che la deliziosa piccola bambinaia ha concluso l’età spensierata, quella del gusto di civettare senza scopo.

In un altro celeberrimo libro, Quel treno per il Pakistan di Kushwant Singh, pubblicato a metà degli anni Cinquanta, il bandito sikh Jugga Singh muore perché, essendo perdutamente innamorato di una ragazza musulmana, decide che taglierà un cavo che può bloccare un treno carico di musulmani che vogliono trovare riparo in Pakistan: se il treno davvero si fermasse, tutti quanti rischierebbero di venire massacrati. Il giovane, coraggiosamente, salta sul treno, taglia il cavo, si butta allo scoperto, viene colpito dagli altri sikh che mirano a lui, perde l’equilibrio e quindi viene ucciso dal treno che lo travolge. Muore per amore, per dare la salvezza alla sua amata, scompare dalla scena e così si chiude il racconto. Eccolo l’eroe positivo: esiste e ha quello scarto di generosità che gli consente di separarsi dall’ossessione dell’etnia, che non avrebbe potuto che farlo identificare con i suoi simili, e di andare incontro al suo destino, fosse anche il più tragico.

Le donne raccontate da Bapsi Sidhwa e da Deepa Mehta – che non sono solo Ayah, ma la madre di Lenny Baby e la stessa Lenny Baby – e altre protagoniste, come ad esempio quelle disegnate da Vikram Chandra in Giochi sacri, raramente sono consegnate ad atti puntuali. In generale le eroine tengono eroicamente la trama delle relazioni fra le comunità.

L’enfatizzazione di questo atteggiamento può tradursi anche in un’incertezza narrativa: la storia di Ayah è raccontata in due modi diversi nel film e nel libro. Il film (forse più felicemente) chiude intorno alla scena drammatica del rapimento della ragazza da parte di una banda di musulmani dopo che la bambina si è improvvidamente confidata con Gelataio. Non così il libro, che invece (forse nella sua parte più faticosa) percorre la vita di questa bellissima ragazza fino all’esito: è un destino di fatica, di marginalità, di prostituzione, di dolore che segue il rapimento.

***

Questa premessa su Earth mi è parsa indispensabile. Ma vorrei anche ricordare che la stessa idea di trilogia – Fire, Earth, Water – che ha ispirato Deepa Mehta implica un’epica e un’epopea. I tre elementi fondamentali che compongono il nostro pianeta sono utilizzati come sintesi di trame di vite femminili che sono, appunto, anche un’epopea. Il fuoco si connette alla passione, in particolare a quella proibita per eccellenza, l’amore omosesssuale; la terra, in senso stretto, alla patria, ma, come vediamo, alla patria strappata, sfigurata, irriconoscibile; l’acqua alla purezza, che non è quella ipocrita della segregazione delle vedove, ma quella splendente degli ideali politici gandhiani allo stato nascente.

Un elemento molto interessante sono le date di questi film: servono a capire come si dipana l’ispirazione della regista, come le risulti via via più chiaro che il suo racconto dell’India così come è stata è una battaglia di libertà, a beneficio dell’India come è e come potrebbe essere. Fire, sull’amore omosessuale fra due cognate, Radha e Sita, è del 1996, Earth è del 1998, Water è del 2005 e affronta il tema delle vedove, perseguitate e tuttora umiliate in India. Voglio aggiungere che questi film, che sembrano pagare qualche debito verso Bollywood e il cinema popolare, in realtà hanno avuto una vita difficilissima in patria. L’unico che è riuscito ad arrivare nelle sale con relativa tranquillità è Earth perché il bisogno di fare i conti con la guerra civile che li ha segnati è molto diffuso fra gli indiani, soprattutto fra quelli più colti e orientati a valori democratici. Quanto a Fire, le proiezioni sono state prese d’assalto dagli integralisti hindu, mentre di Water è stato addirittura distrutto il set a Varanasi e la troupe ha dovuto spostarsi in Sri Lanka. Inoltre l’interprete preferita dalla regista è la meravigliosa Nandita Das che è a sua volta un’intellettuale, donna di grande talento, lontanissima dalle stelline di Bollywood: ha girato anche lei un film difficile sui massacri dei musulmani del Gujarat nel 2002.

Difficile sfuggire al richiamo “epico” della Trilogia, per questo propongo un piccolo détour dal tema della Spartizione per approfondire come temperamenti di eroine ed eroi risuonino negli altri due film fondamentali di Deepa Metha.

A cominciare da Water, ultimo per realizzazione ma primo dal punto di vista del tempo storico. È ambientato infatti nel 1936, un anno fondamentale nel percorso politico di Gandhi, quando il Mahatma, uscito da una lunga prigionia, riesce a creare intorno a sé una passione e un seguito di massa mai visti prima. Persino nell’umido e nel silenzio, nella fame e nell’abiezione di una casa di vedove filtra la voce che c’è un uomo della speranza. Il concetto di patria non gronda sangue: è ancora limpido e astratto, è il grande sogno di una terra pacificante, irrorata di spiritualità. L’idea di una terra mitica, che deve essere libera dai colonizzatori, precede le ferite e la divisione, è quasi più ancestrale del concetto di patria, allude a un messia, a una missione spirituale che l’India unita può svolgere nel mondo.

Ma Deepa Metha e Bapsi Sidhwa – che questa volta hanno invertito le parti, essendo la prima autrice di una sceneggiatura che farà da canovaccio al libro dell’altra (Water. A Novel, pubblicato nel 2006,inevitabilmente non pari per altezze espressive alla Spartizione del cuore) – sanno benissimo che quel sogno di riscatto degli umili e degli ultimi non si è mai avverato nell’India moderna.

Io sono stata testimone diretta, nel 2007, per aver trascorso una giornata a Vrindavan, della vita che si conduce in un ashram di vedove, consacrate a Krishna (vedi Gramaglia 2008, pp. 181-182). Il sari bianco lacero, il seno privato della decente grazia del choli, la ciotola dell’elemosina tintinnante nelle mani, il ciondolio dei corpi nell’incerto confine tra la devozione, cento volte mimata negli inchini, e il rituale psicotico, sono impossibili da dimenticare. Tuttavia non ho visto bambine. Ma soltanto poco prima, nel 2004, la fotografa Laura Salvinelli, scrive queste parole in calce a un ritratto di una bambina bellissima, calva e disperata: «Lakshmi, 9 anni, cieca dalla nascita, orfana di entrambi i genitori. Porta il nome della dea della ricchezza e della prosperità. Vive nel Bhajanashram insieme a duemila vedove bianche. È vegetariana, si veste di bianco e cammina scalza, si taglia i capelli: anche lei è una delle mogli di Krishna» (ivi, p. vi).

Chuyia, la piccola protagonista di Water, non ha più di otto anni. Il film, più sintetico del libro, consegna ai pochi attimi dei titoli di testa la breve felicità di Chuyia. Dai colori vividi del suo sari fluorescente da sposa, dai ricci sparsi per le spalle, si separerà subito per diventare un uccellino bianco, spiumato e disperato, consegnato a una prigione-convento-riformatorio da cui non c’è scampo.

Anche qui lo schema è semplice. In una comunità ostile ci sono due eroine e un eroe, ma le parti si distribuiscono in modo diverso. Kalyani, la vedova giovane e bella, che ha ottenuto di tenere sciolti i lunghi capelli soltanto perché viene sfruttata e prostituita, contro la sua volontà, dall’orrida megera che regge la casa, è l’eroina classica dell’amore, è colei che vive in forza del sogno d’amore e che non può sopravvivere se non è degna dell’uomo che ama, oppure se teme che lui non la ami abbastanza. Shakuntala, un’altra vedova, è l’eroina della saggezza: sa leggere e scrivere, percepisce il corso della storia, sa che lei ne è separata per sempre, ma non vuole che lo sia la sua protetta, l’amatissima bambina Chuyia. Narayan è l’“uomo nuovo”, borghese, colto, anticonformista, gandhiano, con i tipici occhialetti di ferro dalla montatura rotonda, non ha remore a innamorarsi perdutamente di Kalyani, ancorché vedova.

La piccola Chuyia, di una grazia struggente e pericolosamente ambigua, che combina il suo bel corpo tornito da ragazzina con un viso delicatissimo quasi da neonata, armonioso, inerme, senza la cornice dei capelli, tradirà a sua volta involontariamente l’amica Kalyani. Sembra quasi un avviso simbolico questo ritorno del tradimento delle bambine; come a dire che la sorellanza, la forza delle donne che si uniscono, non è un gioco da ragazze inesperte.

L’involontario tradimento sarà anche qui deus ex machina della storia. Un tornante della trama porterà Kalyani a scoprire di essersi inconsapevolmente prostituita con il padre dell’amato Narayan. La vergogna le è insopportabile. Si lascerà affogare nel fiume sacro scivolando lentamente dai ghat alla morte. Come in una fiaba, l’amato la cerca invano e apprende disperato la sua perdita. Poco dopo raggiunge il treno dei ghandiani che perlustrano in lungo e in largo il paese invitando tutti all’insurrezione non violenta.

Resta Shakuntala, la vedova saggia, a protezione di Chuyia (“topolino” in hindi). Non può nulla, se non rincorrere a fiato mozzo il treno di Gandhi con la bambina tra le braccia. Narayan si affaccerà al finestrino e la accoglierà garantendole il riscatto. Tuttavia la macchina da presa indica senza ambiguità chi è l’eroina: si ferma su Shakuntala a lungo, il suo viso diviene sempre più scuro, finché l’immagine viene assorbita dal buio. Gli ideali politici sono fratelli gemelli delle illusioni, ma in questo film sono puri, forse cristallizzati dalla distanza storica, e dicono di una bambina che conquista, per mano di una donna, il diritto di vivere nella libertà. Anche in questo caso la donna (Shakuntala), pur facendo un gesto puntuale, quello di lanciare la bambina nelle braccia di Narayan, accostandosi al finestrino del treno che sta portando Gandhi lontano, è creatura della connessione, del legame. Allo stesso modo con cui si è presa cura dell’agonia di una vecchissima compagna, si fa ponte per un futuro più umano di una donna di domani.

Fire, invece, è una commedia borghese, ambientata nella contemporaneità, più o meno ai giorni nostri. Un marito, innamorato più delle arti marziale e di una morbida amante cinese che della splendida moglie Sita, si trascina al seguito di lei in viaggio di nozze lungo i giardini e gli atrii del Taj Mahal di Agra, come i nostri sposini si trascinano l’un l’altro per le calli di Venezia. Al ritorno a Calcutta li attende una famiglia estesa, formata da un cognato integerrimo e pedante, una cognata di rara bellezza – Radha, la donna del destino – una vecchia nonna non autosufficiente e un servitore sessuomane che intrattiene la vecchia signora con filmini pornografici, masturbandosi senza ritegno. In questo squallore che stride di rumori di clacson e si fa livido di luci al neon, Radha e Sita sono come due cigni che non possono che attorcigliare i loro colli regali. I loro sguardi, la reciproca compassione che le anima per il grigiore dei loro mariti, i loro corpi che via via si avvicinano e si desiderano sono un grande spettacolo amoroso.

Ovviamente l’amore viene scoperto e denunciato dall’occhiuto e malevolo servitore. Sita, la più giovane e la più indifesa, è già fuggita al primo nascere della tempesta domestica e aspetta Radha al limitare di un tempio. Radha, invece, resta in cucina, litiga con il marito furioso e, a un tratto, un divampare di fuoco sbriciola il suo sari. La scena è ambigua. Chi è la Radha che raggiunge Sita al tempio? Quella vera, oppure colei che morente la sogna ancora? Probabilmente la prima ipotesi è quella giusta. Tuttavia, per chi ha letto per un periodo la cronaca nera dei giornali indiani, che quasi ogni giorno raccontano di una donna “misteriosamente” morta nella sua cucina che ha divampato fuoco, l’ombra dell’orrore rimane.

«Non c’è un nome nella nostra lingua che descrive cosa siamo l’una per l’altra»- dice a un certo punto Sita a Radha. Sul limitare del tempio il loro nome è quello di antieroine rispetto alla tradizione. Radha è la moglie di Krishna, la più saggia e la più devota tra le Gopi (pastorelle) che lo venerano. Sita è la moglie di Rama, l’eroe guerriero («le armate di Rama contro le armate di Roma»- gridavano gli integralisti della destra induista per attaccare e offendere l’italiana Sonia Gandhi in una recente campagna elettorale). La Sita del mito si lascia morire fra le fiamme perché l’onore di suo marito non sia messo in dubbio dopo che è stata rapita dal demone Ravana; i due compaiono nel film in varie rappresentazioni televisive e di teatro popolare. Si può ben capire dunque di quale intensità sia stata la provocazione di Deepa Metha, e quanta l’ira degli sciovinisti che hanno dato fuoco alle sale cinematografiche. L’ambiguo happy ending non toglie nulla all’eroismo dell’amore fra donne nell’India del familismo contemporaneo.

 

da Epiche. Altre imprese, altre narrazioni, a cura di Paola Bono e Bia Sarasini, Iacobelli Roma 2014,

 

Vikram Chandra   Giochi sacri  traduzione di Francesca Orsini, Mondadori, Milano 2006

Amitav Gosh, Le linee d’ombra  Einaudi, traduzione di Anna Nadotti, Torino 1996. In appendice: “I fantasmi della signora Gandhi”

Mariella Gramaglia Indiana. Nel cuore della democrazia più complicata del mondo, Donzelli Roma  2008

Jawaharlal Nehru,  “A Tryst with Destiny”, in Independence and After. A Collection of Speeches, 1946-1949, Delhi 1949: The Publications Division, Government of India, p. 3

Bapsi Ssidwa La spartizione del cuore traduzione di Luciana Pugliese, Neri Pozza Editore, Vicenza 1999

Bapsi Sidwa , Acqua, traduzione di Valeria Giacobbo, Neri Pozza Editore Vicenza 2006

Singh,Kushwant Quel treno per il Pakistan, traduzione di Maria Teresa Marenco, Marsilio Venezia 1996

 

Mariella Gramaglia ha iniziato l’attività giornalistica al quotidiano il manifesto nel 1974, durante i mesi della campagna referendaria contro l’abolizione del divorzio. Contemporaneamente ha curato per l’editore Savelli diversi testi inglesi, americani e francesi di divulgazione della cultura femminista. Come giornalsita ha lavorato in radio (radiotre) in televisione (seconda rete Rai) ed è stata notista politica del Lavoro di Genova. Dal 1984 al 1988 ha diretto il mensile Noidonne. Ha svolto un’intensa attività istituzionale: prima come parlamentare dal 1987 al 1992, poi al Comune di Roma dal 1994 al 2007, prima con ruoli di direzione poi come assessore. Nel 2007 è partita per l’India dove ha dedicato un anno alla cooperazione e sviluppo: Frutto di questa esperienza è Indiana:nel cuore della democrazia più complicata del mondo, (Donzelli 2008) Attualmente è editorialista del quotidiano La stampa e partecipa alla redazione di due riviste femministe: LeggendariaIngenere (quest’ultima sul web). Ha sposato l’economista Fernando Vianello, morto nel 2009, ha due figli, Maddalena e Michele, e un gatto, Pablo. Insieme alla figlia ha scritto Fra me e te (milano, Et al. 2013), dialogo fra madre e figlia di vita e poliica

 

 

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