Quando cominciate un nuovo libro che cosa viene per primo: un evento, une scena, uno o dei personaggi?
Ogni libro per me è un’esperienza a sé, molto diversa da quella precedente, e profondamente radicata nella mia esperienza di vita. Direi che l’asse centrale di ogni storia, per me, è soprattutto una trama di relazioni: non solo le singole persone/personagge, ma soprattutto il modo in cui interagiscono, sia le une con le altre che con il mondo, con gli eventi, con se stesse. Dentro a questa trama di relazioni, tendo anche sempre a raccontare dei percorsi di cambiamento interiore – ma forse è così per tutte le storie che vengono raccontate. E infine, fra le cose che mi vengono incontro per prime di una storia ci sono i corpi, le sensazioni fisiche, gli odori, le vibrazioni emotive attraverso la corporeità: la ricerca delle parole per dirle viene dopo.
Se si tratta di un personaggio questo (lui o lei) è legato a un ricordo, a un fatto di cronaca, a un avvenimento storico, personale o collettivo, a un’immagine, a una frase…?
Tutte le mie storie pubblicate nascono dentro esperienze realmente vissute, e anche di forte segno collettivo e “politico”: i miei percorsi pacifisti in Medio Oriente, la vita di mia madre, la guerra nei Balcani, le lotte operaie negli anni ’70. Dentro a queste esperienze ho incontrato personagge e personaggi: sia persone in carne e ossa, a cui ho sentito il bisogno di dare voce letteraria, sia emozioni e percorsi che si sono poi coagulati nella forma di personaggi “immaginari”. A volte queste due spinte si sono mischiate – in “Dita di dama”, per esempio, nessuna personaggia corrisponde totalmente a una persona in carne e ossa che ho incontrato, ma ciascuna porta in sé le esperienze realmente vissute da più di una persona, oltre ad altre cose immaginate da me. Nel libro che sto scrivendo ora, invece, sto raccogliendo una storia di vita così ricca e appassionante che credo non ci metterò nulla di “immaginario” – ma non per questo le persone di cui sto scrivendo saranno meno “personagge” di quelle frutto dell’immaginazione. La sfida, per me, è scovare la dimensione “letteraria” dentro la vita, e perfino dentro la politica e la socialità: cioè far fluire dentro di me la forza emotiva delle persone che incontro, cercando di comunicarne l’intensità a chi legge, di fargliela risuonare dentro. Se e quando ci riesco, non c’è più differenza fra mia madre, l’operaia della Voxson, Antigone, l’immaginario zio Sergio, o la mia amica israeliana delle Donne in nero: sono tutti, contemporaneamente, personaggi letterari e voci di vita vissuta.
Vi sembra che la differenza tra personaggia/gio sia importante? Decisiva? Senza importanza?
Per me la differenza è decisiva, nel senso che ho sempre raccontato storie di donne, e finora solo queste mi sembra di sapere o voler raccontare – in futuro non so. Non so neanche se continuerò sempre a scrivere in prima persona, come è stato finora in tutti i miei libri, e anche in quello che sto scrivendo ora – magari con delle “prime persone” molteplici e intrecciate. Finora le mie uniche esperienze di scrittura in terza persona sono state nei primi passi del mio cammino, ancora inediti e legati ad un momento specifico della mia vita: i romanzi che scrivevo per le mie bambine negli anni ’70-’80. Anche in quel caso, però, le protagoniste erano tutte bambine, e il loro mondo era in larga misura un mondo di donne. Non è mai stata una scelta femminista in senso “ideologico”: credo piuttosto che sia legata alle storie che ascoltavo da mia madre, mia nonna e mia zia – a una mia genealogia femminile molto forte, nella quale il narrare storie è sempre stata una delle modalità importanti della relazione. Non si raccontavano solo storie di donne, ovviamente; ma per me la necessità vitale di uno sguardo femminile sul mondo ha spesso comportato quasi un rifuggire dai personaggi maschili. Con “Dita di dama” credo di aver superato il blocco: anche se pochi, i personaggi maschili di quella storia credo abbiano un loro spessore autonomo, e inoltre – a differenza dei personaggi femminili centrali – sono quasi interamente frutto dell’immaginazione. Insomma, sono proprio “personaggi”, nel senso più tradizionale della parola.
Quando il personaggio si è confermato o imposto lo lasciate continuare il proprio cammino, in altri termini trovate che i personaggi abbiano o no una vita autonoma?
Secondo voi, i personaggi /le personagge sono più forti o no dell’autore/autrice?
Vi è capitato di essere state sorprese dal sopraggiungere di un personaggio inaspettato? In che modo il personaggio/la personaggia è una straniera/uno straniero per voi? O al contrario qualcun/a di estremamente intimo?
Rispondo a queste tre domande insieme, perché tutte attengono allo stesso tema: la relazione fra personaggio/a e autore/autrice. Secondo me è difficile tracciare un confine: i personaggi/le personagge semplicemente sono l’autore/autrice. Non solo nel senso che diceva Flaubert, “Madame Bovary c’est moi”, ma in mille sensi diversi, che ognuno/a di noi può declinare in modo diverso, ma che ruotano sempre attorno allo stesso nodo: sono voci che vengono dal profondo di me, ma io raramente so dire esattamente da quale anfratto di questa profondità, e perché proprio oggi, e perché in questa forma. Nelle personagge che mi sono venute incontro, ad esempio, è ricorrente il tema del doppio, dell’Altra: la relazione/conflitto/rispecchiamento fra due donne. Il caso più estremo sono le tre coppie di sorelle di “Il resto è silenzio”; ma c’è anche la coppia madre-figlia nel libro in cui ho raccolto gli scritti di mia madre e narrato di lei, o le palestinesi e le israeliane in Salaam Shalom, o ancora la studentessa e l’operaia in “Dita di dama”. Tutti questi sdoppiamenti hanno radici in esperienze reali: spesso sono anche la narrazione, a volte realistica a volte trasfigurata, di cose realmente avvenute – e contemporaneamente, io so che ciascuna di queste coppie narra anche una mia “doppiezza” interiore, fra parti diverse di me che fatico a conciliare. I momenti di vita autonoma di questa o quella personaggia, la sua capacità di sorprenderti, di entrare inaspettata nella tua storia, di essere contemporaneamente straniera e profondamente intima, sono per me altrettanti momenti del disvelarsi della mia interiorità attraverso la scrittura: mi sorprendo perché scopro che ho dentro di me cose che non sapevo, o riconosco cose che sapevo ma cui non sapevo dare un nome, o riesco finalmente ad accettare come mio un volto da cui prima rifuggivo. Eccetera.
Quale tra personaggi (maschili e femminili) delle vostre letture avete amato di più?
Cassandra di Christa Wolf. Jacques il fatalista di Diderot. Ariel nella Tempesta. La protagonista di “Their Eyes were watching God” di Zora Neale Hurston. Leni in “Foto di gruppo con signora” di Heinrich Boll. L’ufficiale tedesco in “Il silenzio del mare” di Vercors. Da bambina, ovviamente Jo di “Piccole donne” e le gemelle di “Carlottina e Carlottina” di Kaestner (a proposito del doppio!!).
Quali dei vostri personaggi/e amate di più?
Ismene, la sorella di Antigone, nel romanzo “Il resto è silenzio” in cui ho esplorato il nostro rapporto con il conflitto nei Balcani. È una storia molto sofferta, che è entrata e uscita dai miei cassetti per dieci anni: la parte “tebana” è quella che più ha assomigliato, per me, ad un percorso psicanalitico. Quando ho iniziato a scriverla, negli anni ’90, era ancora dominante nella mia vita la parte di me “Antigone”, cioè “eroica” e tutta votata all’azione – nei Balcani e non solo. Con Ismene mi sono detta, anche dolorosamente, che esisteva in me un’altra dimensione, un bisogno di dare più spazio all’interiorità, di non essere schiacciata dal dover essere e dalla passione di cambiare il mondo. Ho passato mesi a leggere e rileggere la trilogia di Sofocle, a scrivere e riscrivere Ismene, Antigone, Edipo, Giocasta, i fratelli: infanzia, amori, relazioni, conflitti… Decine e decine di pagine, di cui nella versione finale del libro è rimasta solo una piccola parte, per non soffocare troppo una storia che aveva tante altre facce e contenuti, e non poteva essere risucchiata solo da Tebe; ma Ismene, nel suo faticoso percorso per “riconciliarsi” con Antigone, me la porto dentro sempre, con tenerezza e dolore. Per converso, devo dire che sono anche molto affezionata a Ninanana, la borgatara di “Dita di dama”, che è una personaggia quasi del tutto frutto della mia immaginazione: è sfigatissima ma anche ironica, e mi ha aiutata a dare una voce romanesca e un po’ più leggera alle mie riflessioni. Infine, sono molto affezionata a Peppe il marcatempo, che mi ha riconciliata con i personaggi maschili, e alla magica Scopetta del primo romanzo che ho regalato alle mie figlie, e che a me ha regalato la magia e la gioia della scrittura.
Chiara Ingrao è scrittrice e animatrice culturale, impegnata da tempo in molteplici esperienze politiche, sociali, culturali. Negli anni ’70 ha partecipato attivamente al movimento femminista e si è in seguito impegnata nel coordinamento donne del sindacato. Portavoce dell’Associazione per la pace (1987-1992) è stata una delle coordinatrici italiane degli incontri fra donne italiane, palestinesi e israeliane a Gerusalemme. Notevoli i suoi interventi per la liberazione di ostaggi a Baghdad e negli organismi internazionali durante e dopo la guerra nei Balcani.
Tra i libri nati da queste e altre esperienze “Salaam shalom – Diario da Gerusalemme”, “Baghdad e altri conflitti” (Datanews, 1993), “Soltanto una vita” (raccolta e cura degli scritti della madre Laura Lombardo Radice) (Baldini Castoldi Dalai, 2005), “Il resto è silenzio” (Baldini Castoldi Dalai, 2007), “Dita di dama” (La Tartaruga, 2009). Il suo sito è http://www.chiaraingrao.it/
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