Inizio a leggere Milano, fin qui tutto bene di Gabriella Kuruvilla al rientro dal Lido di Milano, dove si è svolta l’Abba cup, un’iniziativa per ricordare Abdul Guibre, detto Abba, ragazzo nero italiano ucciso a bastonate quattro anni fa da due baristi bianchi italiani che lo accusavano di aver rubato un pacchetto di biscotti. Una atroce storia di razzismo che mi catapulta nella Milano plurietnica descritta da Kuruvilla, una metropoli-caleidoscopio segnata da storie, luoghi, lingue che compongono una città in continuo movimento, abitata da contraddizioni e complessità.
I quattro capitoli del libro portano i nomi di quattro zone di Milano -Via Padova, Viale Monza, Sarpi, Corvetto- luoghi in cui si svolgono le vicende dei protagonisti -Anita, Samir, Stefania, Tony- che si incontrano nelle varie zone della città. Kuruvilla illustra sapientemente l’animo di ognun* di loro, mostrando, attraverso pregi e fragilità, la loro più profonda umanità, evitando giudizi morali e restituendo la complessità delle loro vite: dalla madre single meticcia dalla doppia identità, all’artista milanese frequentatrice di centri sociali; dall’egiziano ex spacciatore padre di un figlio che non conosce, all’immigrato campano in cerca di una via alternativa alla violenta vita di strada.
Ma imponente protagonista del romanzo è Milano, le sue strade, i suoi locali, i parchi, i centri sociali, gli istituti di carità, le scuole, i campi rom. Kuruvilla, ricostruendo la storia dei posti attraversati dai protagonisti, tesse la trama mutante di una città che in cento anni ha cambiato più volte aspetto, una città capace di reinventarsi utilizzando in modo nuovo edifici che si svuotano e perdono la loro originaria identità. Girovagando a piedi con Anita ed il figlioletto, scopriamo che «Via Padova è piena di ex industrie. Il centro commerciale è un ex industria, la chiesa evangelica è un ex industria, l’emporio di arredamento è un ex industria, la moschea è un ex industria». Via Padova «per alcuni è il ghetto, la casbah, il Far West o la banlieue italiana più disastrata. Per altri, invece, rappresenta l’East End milanese: un modello di convivenza possibile. C’è chi non vorrebbe mai entrarci, c’è chi non vorrebbe mai uscirne». Anita, «né vecchia bianca né giovane nera», neomamma che ha perso i genitori in un incidente stradale, in questo rumoroso quartiere popolare, brulicante ed invadente, trova un suo precario equilibrio: «Via Padova mi accoglie, e io mi sento accolta».
Stefania, pittrice quarantenne, lasciata dal marito, fotografa e dipinge i cinesi presenti in città, cercando di raccontarli. «Mi tuffo in Via Paolo Sarpi, nel cuore del mio quartiere, un tempo chiamato el burg di scigulatt: il borgo degli ortolani. Un dedalo di stradine in cui ci si perde e dove non c’è parcheggio, situato poco lontano dal Duomo ma è come se mi trovassi nel centro di Pechino». E poi: «Via Paolo Sarpi era una delle strade commerciali più importanti di Milano: faceva a gara con corso Buenos Aires e corso Vercelli. C’erano i grandi marchi e c’erano le piccole attività. Alla fine degli anni ’90 hanno venduto quasi tutti: i cinesi pagavano subito ed in contanti, tirando fuori i soldi dalle valigette. Una ciav d’or la derva tüt i port».
Tony, ragazzo di strada, immigrato da Scampia con la famiglia, vive a Corvetto, zona periferica segnata dalla miseria. «L’aria di disfatta si sente in tutto il quartiere. Quasi tutti i commercianti, infatti, hanno già cominciato ad abbandonare la nave prima che affondi: lasciando i loro locali agli immigrati, che poi sono gli unici che se li pigliano. Tieni sempre e comunque la sensazione di vivere in culo al mondo, mentre stai a soli tre kilometri dal Duomo. Sei quasi in pieno centro, ma abiti in una periferia mutilata».
Samir, lavapiatti egiziano arrivato col gommone a Lampedusa, racconta una Milanosegnata da forti linee di classe e di colore. «Io non sapevo come era viale Monza prima ma so com’è adesso. Un rettilineo di soli trecento metri, sorvegliato dalle telecamere, in cui ci sono una ventina di attività commerciali: più della metà gestita da immigrati. Il phone center bengalese, il ristorante sudamericano e la macelleria islamica sono i veri e propri punti di ritrovo per le diverse comunità che si dividono in gruppi, fuori e dentro questi locali, disegnando i confini territoriali sull’asfalto dei marciapiedi. Da questa zona, negli ultimi anni, gli italiani sono scappati in massa, vendendo o affittando, spesso a prezzi assurdi, i loro appartamenti, il più delle volte fatiscenti, agli immigrati. Ya ibn el kalb: bastardi, ci speculano sopra, al nostro bisogno di avere un pavimento sotto i piedi e un soffitto sopra la testa: anche se stanno per sprofondare, con noi schiacciati in mezzo»
Kuruvilla, laureata in architettura, rende i luoghi oggetti di memoria narranti la vera essenza della città, dando così rilievo a salienti fatti di cronaca. Il figlio di Anita «è nato di spavento la mattina dopo gli scontri di Via Padova», avvenuti il 13 febbraio 2010 in seguito alla morte di un diciannovenne egiziano causata dalle coltellate inflittegli da un trentenne dominicano. «Del gran casino di grida e gesti, la notte stessa, ne abbiamo parlato, nel mio palazzo: che è pieno di latini e di nordafricani che non si sono mai accoltellati. Ci siamo detti che ci si ammazza per futili motivi ad ogni età, in ogni paese. Solo che è capitato in via Padova, tra due giovani stranieri, quindi questo gran casino di grida e gesti durato poche ore coinvolgendo un breve tratto di strada è stato paragonato alle rivolte nelle banlieues parigine». L’allarme securitario portò alla militarizzazione del quartiere. «Da dieci mesi il quartiere è sotto assedio: non dei manifestanti maghrebini ma delle forze dell’ordine italiane. Vigili, poliziotti e militari, inguainati nelle loro divise, armati di manganelli e pistole e inscatolati dentro auto, camionette e blindati, rastrellano via Padova, per ripulire il quartiere, come se i rifiuti da raccogliere fossero quelli umani». L’imposizione del coprifuoco con la chiusura anticipata delle attività commerciali «svuota le strade poco dopo il tramonto, rendendole realmente pericolose».
Stefania, macchina fotografica al collo, documenta coi suo scatti «un corpo sanguinante raggomitolato sul marciapiede, i finestrini rotti di un’auto ribaltata, lo sguardo terrorizzato di un bambino, la cintura bianca con la fondina per la pistola, i frammenti di vetro sparpagliati a terra, la bandiere rosse con le stelle gialle, le serrande improvvisamente abbassate dei negozi. Particolari di una rivolta». Quella avvenuta il 12 aprile 2007, quando in seguito ad una multa presa da una donna cinese, trecento della sua comunità furono caricati dalla polizia, dando vita ad una guerriglia metropolitana. Un pomeriggio di confusione e scontri nella cosiddetta Chinatown milanese che «non ha niente a che vedere con le altre che ci sono in giro per il mondo. In quelle i cinesi ci vivono, qui invece più che altro ci lavorano».
Tema centrale della Milano meticcia non può che essere la migrazione, che da anni segna la geografia della città, meta prima di veneti e meridionali e poi di stranieri di diverse nazionalità. Questa la loro condizione dalla fine degli anni ’90: «siamo trattati come rifiuti gettati dal mare sulle coste e veniamo lasciati in attesa di essere smaltiti altrove. – racconta Samir- Ma poi, altrove, non sempre riusciamo ad andare e a volte restiamo qui, in quello che c’è il rischio che rimanda sempre un altrove: makan tani. Altrove rispetto a noi».
La scrittrice italoindiana indica le linee di contatto e confusione tra le diverse appartenenze, racconta di coppie miste e amicizie meticce, relazioni che vanno aldilà delle differenze di classe e di appartenenze nazionali, facendo della Milano odierna una enorme mescolata metropoli, dove ha poco senso parlare di integrazione. «Non ne posso più di questa storia dell’integrazione: ma secondo te gli italiani sono integrati in Italia? Io vivo qui da sette anni circa e ne ho incontrati un sacco di italiani che non sono integrati in Italia ma neanche in loro stessi”. Sembra rispondere all’interrogativo di Samir, Tony, migrante dalla Campania: «Gli immigrati della zona ammetto che un po’ ci assomigliano, e non è che ci piaccia vederci riflessi nei loro specchi».
L’impossibilità di definire precisamente il proprio territorio, la propria rigida identità, in un contesto di soggettività fluide, emerge dal corposo utilizzo del linguaggio da parte di Kuruvilla: la scrittrice, che è anche pittrice, stende sopra l’italiano pennellate colorate di arabo, di dialetto milanese, di patois misto al napoletano. Una lingua contaminata in continua evoluzione e mutamento che dice com’è oggi la nostra società, dove nostra è da intendersi nel modo in cui Anita percepisce il suo palazzo, il suo bar, «mio è nostro: non è privato ma è sempre pubblico, in questo quartiere. Quando dici mio comunichi nostro e partecipi a un mondo. Non sempre ti piace, quello a cui partecipi, anche se ti ostini a fare lo spettatore esterno. Ma il contesto ti contamina sempre».
E così la Milano intensamente mappata nel romanzo diventa il simbolo di numerose città italiane, territori frontiera in cui gli abitanti vivono tra lo straniamento e la vicinanza, la diffidenza e la solidarietà, la rabbia e le ingiustizie, tra la precarietà individuale ed i conflitti collettivi. Lo spaesamento è un sentimento comune alla variegata popolazione che convive nelle città odierne, ma ciò non deve sviare da quello che, secondo me, è il complicato compito che tocca a tutt* noi: scrivere un futuro sociale condiviso. Comporre un inaspettato disegno del caleidoscopio dove ci sia spazio per tutt*, in maniera fluida e intrecciata, perché il nostro presente è in continuo movimento, «si perde sempre qualcosa per lasciare spazio ad altro. Memba dat: fa paura, ma è così. D’ora in poi dovrò sognare con i piedi per terra».
“Milano, fin qui tutto bene” è un libro davvero appassionante che lascia il segno, confermando la grande capacità di Gabriella Kuruvilla di dipingere incisive istantanee del presente e rendendola una delle scrittrici più rappresentative in questa Italia che cambia.
Gabriella Kuruvilla, Milano, fin qui tutto bene, Editori Laterza, Collana Contromano, Roma 2012, 186 pagine 12 euro
Biobibliografia di Gabriella Kuruvilla
Recensione di Clotilde Barbarulli da le Monde diplomatique
Recensione-intervista di Igiaba Scego su Pubblico Giornale
Recensione di Daniela Brogi su Il Manifesto
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