Christiana de Caldas Brito, nata a Rio de Janeiro, viene in Italia con una borsa di studi post universitari e con un diploma della Scuola d’arte drammatica ottenuto a San Paolo del Brasile. Dopo soggiorni in vari paesi, si stabilisce a Roma nel 1990 dedicandosi alla narrativa e alla psicologia. Conduce laboratori di scrittura. Alcuni suoi testi teatrali sono stati messi in scena. Da quando l’ho conosciuta nel 2003, per parlare della sua prima raccolta di racconti al Giardino dei Ciliegi di Firenze, è divenuta per me una preziosa interlocutrice per riflettere sulla scrittura.
Hai detto che occorre del tempo perché una lingua nuova possa penetrare nel proprio tessuto interiore, ma ormai hai saputo lavorare sul lessico, come il poeta-mendicante che in un tuo racconto raccoglie le parole abbandonate simili a monete dai passanti, riuscendo a far delirare la lingua, nel senso di farla uscire dai codici (Deleuze), con una interessante sperimentazione sull’italiano, sia sonoro che scritto (mi limito a citare “Ana de Jesus” e “Maroggia”). Puoi parlarci di questo tuo percorso, che ritengo affettivo e intellettivo, con l’italiano?
«È molto interessante la sintesi che fai del mio percorso nel rapporto con la lingua italiana. La lingua dell’infanzia è una delle tre madri (accanto alla madre biologica e alla madre patria) che di solito una(o) migrante abbandona quando va a vivere in un altro paese. Ma, in realtà, la lingua madre non è mai del tutto abbandonata. È come un vestito messo in un armadio. Quando quel vestito ci serve, lo possiamo indossare. Forse il paragone è un po’ debole perché la lingua che si porta dalla culla non è qualcosa di esterno a noi. Ogni tanto la lingua natale irrompe in un lampo, mescolandosi alla lingua del quotidiano, ossia all’italiano. Può anche ritornare nei sogni. La lingua madre in realtà è sempre in noi. È la struttura dei nostri pensieri, la nostra forma mentis. È con la lingua che si elaborano i pensieri. E, in un certo senso, è anche la base affettiva delle esperienze perché la lingua si forma con le abitudini, con la ripetizione di suoni legati a persone e ad azioni che diventano familiari. La percezione del reale si allarga quando impariamo una lingua nuova. Mi piace pensare che la lingua italiana mi offre parole che prima non erano parte del mio campo mentale/affettivo, parole libere da una storia, da una tradizione. È più facile allora giocare con esse. Quando impariamo una lingua da persona adulta, non esistono per noi parole tabu in quella lingua, non esistono parole che richiamano ricordi necessariamente allegri o tristi. Il fatto che le parole siano senza storia, offre grande libertà creativa a chi scrive».
Hai contribuito così, insieme ad altre autrici, ad arricchire ed inquietare il sistema letterario italiano con un’esperienza nomadica che attraversa i sensi della lingua e rimette in discussione nozioni codificate di appartenenza nazionale e linguistica. Cosa pensi di questa letteratura italiana contemporanea sempre più mischiata?
«Penso che sia un chiaro segnale di un mondo nuovo in cui i confini tenderanno a sparire. L’interculturalità chiede un modo diverso di interagire, non più poggiato su culture nazionalistiche, separate, ma una nuova cultura scaturita dalla coscienza dell’incontro».
Nel racconto “Il capostazione” spieghi che il tuo lavoro di psicoterapeuta consiste “nell’avvicinare le persone alle proprie emozioni”, anche se “coperte da convenzioni sociali, da abitudini”, e le accompagni “in un incerto e lungo viaggio”: è quello che per me fai anche con chi legge, alternando i vari registri, dall’ironia al fantastico alla saudade attraverso i confini del tempo e dello spazio. In questa dislocazione continua, se non si accetta di vedere Maroggia marefarsi, si rischia di ritrovarsi smarrite/i sulle linee di confine. È questo il tuo intento quando scrivi, oppure è una conseguenza, inevitabile, del tuo “andare a fondo” nelle emozioni “vestendole di parole”?
«Il racconto “Il capostazione” non è autobiografico, ma è un’invenzione letteraria. La psicoterapeuta è un mio personaggio. In questo senso, sono presente in lei. È bello che tu abbia associato il ruolo della psicoterapeuta del racconto alle scrittrici e agli scrittori reali che accompagnano i loro lettori in un incerto e lungo viaggio. Mi piace che il viaggio sia incerto. Le certezze non portano alla ricerca, non invitano ai viaggi; i dubbi, sì. Quando si vive tra confini, tra un qui e un là, si corre il rischio dello smarrimento. La psicoterapia oggi considera i casi di persone che hanno disturbi dovuti a questo vivere tra due culture. Il professor Bruno chiama “distonia culturale” questo disturbo che ha dei sintomi simili a quelli della schizofrenia. Il mio intento quando scrivo, non è prevedibile. A un certo punto di un racconto, sono i personaggi che mi portano dove vogliono loro. Posso anche partire da un’idea ma se nell’elaborazione di quell’idea, la mia emozione non è presente, so che non sarà neanche nella mia lettrice o nel mio lettore. Scrivere è un’attività piena di misteri, di curve, di luce e di ombra, di aspetti inconsci accanto a una logica e a una razionalità necessarie alla costruzione del racconto. Elementi contradditori si contendono nella scrittura».
Vorrei soffermarmi su “Tre silenzi”, dove la vicinanza fisica di un uomo che non parla induce effetti stranianti sul quotidiano di tre donne. Nelle scrittrici dell’800 emerge il silenzio di chi, per i codici dominanti, non può avere voce; per Zambrano “la verità di quel che accade nel seno nascosto del tempo, è il silenzio delle vite che non si può dire[…]. Ma è ciò che non si può dire che bisogna scrivere”. E per te?
«Ogni persona che scrive, parla del proprio silenzio e dei silenzi altrui. Come sai, Clotilde, il mio primo libro (Amanda Olinda Azzurra e le altre) erano racconti di donne che vivono costrette al silenzio. In “Tre silenzi”, tre donne reagiscono in modi diversi al silenzio di un intrigante uomo che compare sulla spiaggia durante la loro villeggiatura. Quest’uomo con il suo silenzio, offre alle tre donne, la possibilità di cambiamento, ma solo se riusciranno a tollerare il suo silenzio. Delle tre donne, solo Martha entra nel silenzio e prende una decisione che cambia la sua vita. Bessy reagisce al silenzio con grande rumore, ritornando al vecchio comportamento. Ed Evelina perde, pure lei, la sua lezione di silenzio. Per me, il silenzio è una specie di disintossicazione di tutto quello che può impedirmi di riflettere e di toccare le mie emozioni».
Nei dibattiti tra critici si disserta se l’impegno politico può minare lo stile, e addirittura uno scrittore come Pamuk ha affermato che “distrugge il bello” della letteratura. Per me invece la letteratura ha una valenza perturbante e scardinante verso le istituzioni sociopolitiche esistenti, opinioni correnti e modelli dominanti, evocando nuovi differenti mondi (Cixous). In tal senso i tuoi libri sia con l’ironia (“Io polpastrello 5423”) che con la forza della denuncia (500 temporali), intrecciano felicemente forma e politica, etica e poesia. Cosa ne pensi?
«L’impegno politico significa partecipare alla vita sociale, significa essere presente, con gli occhi aperti e un cuore che rompe i confini del proprio petto per difendere i suoi diritti e quelli degli altri. In che senso questo impegno umano potrebbe minare lo stile, attaccare il bello? Proust diceva che lo stile per lo scrittore, come il colore per il pittore, non era una questione di tecnica ma di visione. Proiettiamo nel mondo quello che siamo. E qui ricordo Fernando Pessoa (“Mar português”): tutto vale la penna se l’anima non è piccola (“Tudo vale a pena se a alma non è pequena”). Perché non dire che tutto vale la pena (con una “n” sola) se l’anima non è piccola? Direi che l’ironia e il fantastico sono le mie due chiavi di lettura del reale. Il fantastico a volte è, in certe nazioni, l’unica forma di parlare dei diritti di ogni essere umano. Anche la malinconia accompagna sempre quello che scrivo. Direi che l’ironia e il fantastico sono le mie armi letterarie, mentre la malinconia è il sottofondo di quello che racconto. Leggere vuol dire scoprire nuove intenti in un testo e non solo quegli manifestati dall’autrice/autore. Chi legge, in un certo senso, continua a scrivere il libro che legge. È quello che fai con la tua lettura dei miei libri, Clotilde: mi riveli a me stessa. Te ne sono grata».
Stai preparando qualcosa di nuovo?
« Ho pronto un libro ispirato a quadri famosi di vari periodi storici e di tematiche diverse, come la Annunciazione di Lorenzo Lotto o L’Infanta Margarita del Velázquez. La prima parte,sono dei brevissimi testi, come se parlasse qualche personaggio del quadro. Dò vita letteraria a personaggi pittorici. Nella seconda parte ci saranno testi più lunghi sempre ispirati a delle immagini. Ho anche l’idea di radunare tutti i miei atti unici per il teatro e pubblicarli. Sto lavorando su un nuovo romanzo che si chiamerà Colpo di Mare. Nel primo romanzo, 500 Temporali, la pioggia era così presente che è diventata una delle protagoniste. Il secondo avrà il mare come leitmotiv. Simbolicamente, l’acqua ha a che fare con il sentimento. Acqua e sentimento, ambedue essenziali alla vita. L’epigrafe di Colpo di Mare saranno versi tratti da Il treno arancione di Sandra Cammelli, che ho conosciuto a Firenze, nel Giardino dei Ciliegi, e che sembrano adatti a Flora, una delle protagoniste del romanzo, dove il mare sarà pronto ad alzarsi nell’onda di quella poesia: Un serpente mi ha accompagnato fino al mare dove ho visto/ l’onda scindersi in/ mille altre onde/ Ho camminato fino alla fine del mare e le onde mi hanno/ lasciata passare/ Sono andata oltre il mondo».
I libri di Christiana de Caldas Brito:
Amanda Olinda Azzurra e le altre, Lilith 1998, Oédipus 2004
La storia di Adelaide e Marco Il Grappolo 2000, per ragazzi
Qui e là, Iannone Isernia 2004
500 temporali, Iannone Isernia 2006
Viviscrivi, Eks&Tra 2008).
Sandra Cammelli Il treno arancione, SoleOmbra, Firenze 2007
Hélène Cixous, Le fantasticherie della donna selvaggia, Bollati Boringhieri, Torino 2005
Gilles Deleuze Critica e clinica, Cortina, Milano 1996.
Claudio Magris “Il cuore freddo degli scrittori”, Corriere della Sera, 21.10.2007
Maria Zambrano “Perché si scrive”, Paragone, 138 (1961)
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