Alla Biblioteca Statale di Trieste Amazonen, progetto “Cancro al seno”, di Uta Melle, con foto di Esther Haase e Jackie Hardt, a cura di Nadine Barth propone immagini di straordinaria intensità, stranianti, sconvolgenti, e cariche di una forza imprevedibile.
Con la prefazione di Beate Wedekind, nasce anche il libro fotografico che accompagna la mostra, e che racconta la straordinaria avventura artistica e di vita di un gruppo di donne che hanno trovato un modo dirompente e radicale per parlare del cancro al seno, esorcizzando la malattia e la paura.
Il progetto fa parte di un convegno, “L’officina dei sensi ”, organizzato da Kineo Film e Terzo Cinema, come progetto di Video Alfabetizzazione Multisensoriale (VAM), per rinnovare il cinema e il liguaggio audiovisivo, sottraendoli a logiche mercantili e di competizione, per ricercare modalità nuove di osservazione della realtà, in cui vengano stracciati presupposti discriminatori.
“Non è per me sola” dice Uta Melle, ideatrice del progetto artistico che ha coinvolto molte donne provenienti da diverse città della Germania, “fa parte del processo di guarigione”.
La mostra mette in evidenza la rottura di un tabù, quello della esposizione di un corpo mutilato, proprio nei luoghi più significativi ed erotici della femminilità. Una rottura reale e simbolica che diventa una riappropriazione di un sé differente, altro, ma vitale, esibito con gioia, ritratto nelle vesti sfarzose di una classicità che passa attraverso la pittura rinascimentale e barocca, o lasciato nudo, a correre gridando per le strade della città. “Esibizionismo radioso”, lo chiama Beate Wedekind nella prefazione.
Sono documenti impressionanti perché spiazzanti, fuori dai canoni nei quali solitamente consideriamo la malattia, e fuori dai canoni nei quali esaltiamo la bellezza. In questa mostra sono compiute due grandi trasgressioni-rivoluzioni, due capovolgimenti totali di prospettiva, a cui non siamo abituati. Inizialmente può incutere disagio, si può avvertire quasi un senso di superbia, una volontà accanita di voler uscire fuori dalle regole a tutti i costi. Un peccato di hybris.
Un attacco alle regole che rendono “colpa”, la malattia, silenzio e occultamento la situazione delle donne colpite. È una indicibilità che ha attraversato le coscienze individuali, trova uno spazio approssimativo di vicinanza nella società che tende a nascondere, per senso del pudore, che, al massimo, mostra pietà e commiserazione. E anche un avvertibile, taciuto senso di paura.
Ma occorre osservare in silenzio queste immagini di forza drammatica dirompente e fare spazio dentro di sé a una accoglienza del dramma, senza relegarlo nel buio dell’innominabile. C’è una carica eversiva radicale in queste immagini. “La vita continua”, dice Uta Melle, “e la bellezza è la vita che prosegue”.
Ecco gli assunti di una nuova estetica capace di scardinare quella che viene considerata la “normalità”. Donne piene di cicatrici, senza capelli, con dei tagli vistosi al posto dei seni. E, a corollario di queste scene, ci si aspettano sguardi ansiosi, volti carichi di tensione e paura, anime drammaticamente segnate da inquietudine. Invece, ecco occhi spavaldi, luminosi, volti temerari, orgogliosi di mostrare una bellezza nuova e diversa, una carica vitale che non si esaurisce e mortifica nella perdita dei seni, come fosse una perdita globale di femminilità. La potenza delle immagini restituisce un senso di forza, di volontà non domata, un desiderio imperioso di essere comunque arbitre della propria vita, in qualunque condizione essa sia stata determinata.
Non c’è leggerezza o puro arbitrio in questa scelta, non ci sono superficialità, finzione, illusione, tentativi puerili di allontanamento fantastico dal dramma. Ogni donna appare pienamente consapevole della propria condizione. Quello che dà forza alle immagini è la rivendicazione collettiva di un passaggio di esistenza, nel quale ancora una volta il soggetto femminile è capace di agire, di porsi nel mondo, di combattere la propria battaglia. La forza deriva dalla relazione tra le diverse donne: questa l’intuizione di Uta Melle che ha voluto lanciare una sfida pubblica, affinché le donne non vivessero nella solitudine e nell’isolamento la loro nuova condizione di mastectomizzate.
Se pensiamo a come la società, normalmente, si occupa di tali patologie, con la creazione di cuscinetti riempitivi, corsetti, protesi, atti a nascondere la menomazione, capiamo che si tratta, in questa mostra, di una rivoluzione copernicana.
Il punto significativo da considerare è che i tagli, le cicatrici, non sono esibiti come luogo di un gusto degenerato per l’orrido, ma vengono riassorbiti in un discorso nuovo sulla femminilità che tiene conto della situazione concreta del soggetto e non assegna il primato della stessa femminilità a singole parti specializzate del corpo. È la presa d’atto di un cambiamento e la ridiscussione globale di un soggetto-donna, che si ricolloca nel mondo attraverso la propria femminilità. Ecco le pose regali delle immagini con i panneggi purpurei, i pepli, le armi classiche, l’elmo. Il riferimento alle antiche guerriere Amazzoni, che volontariamente si tagliavano un seno per combattere meglio, è un archetipo e insieme un’affinità. Sono le nuove Amazzoni queste donne capaci di combattere la paura e orgogliose di restituire una immagine complessa di sé, non menomata dalla malattia o resa invisibile a causa del pudore e della vergogna.
La forza dell’archetipo è proprio nella sua esposizione, nella dichiarazione pubblica di esistenza, alla quale le donne affidano la propria rinnovata immagine. A guardare le fotografie si resta colpiti da un sentimento di grandezza e forza, che induce una valutazione di bellezza.
Nel libro fotografico che accompagna la mostra si alternano anche narrazioni. Le narrazioni delle singole donne e quelle dei fotografi che le hanno ritratte. E’ interessante notare come le donne apparissero di primo impatto: non ansiose e preoccupate, ma sdraiate sui divani a chiacchierare, intente a provare i costumi, in piedi al buffet, disinvolte di fronte alla telecamera. Tutte determinate, nonostante segni di stanchezza e affaticamento, a dare di sé l’immagine di una combattente.
È anche una grande lezione di etica pubblica: invece che guardare nella direzione contraria, occultare, subire con angoscia, non solo la malattia, ma anche tutte le fantasie pesanti e violente legate alla menomazione, occorre dare spazio a una rinnovata relazione positiva tra le donne, capace di affermare che “una donna senza seno è una donna, perché le fotografie mostrano che le donne non devono nascondere nulla”.
Invece, sembra essere una regola non detta in questa società, ma estremamente efficiente: l’integrità corporea deve essere ripristinata ad ogni costo. Tutto deve essere come prima, attraverso corrrettivi artificiali. Come se non fosse accaduto nulla. Questo, naturalmente, soltanto nella forma esterna, perchè i pesanti fantasmi della menomazione agiscono brutalmente sui soggetti nella interiorità. Una lacerante spaccatura tra dentro e fuori il soggetto.
In questa mostra, al contrario, c’è una presa d’atto pubblica di una realtà diversa. Non una sconfitta, ma un cambiamento, una nuova partenza. Una ridiscussione della femminilità, nel senso di un accoglimento più ampio e complesso di tale concetto, meno legato a sterotipi e a immagini consolidate. Un allargamento della osservazione sulla realtà, capace di offrire strumenti nuovi di indagine.
Come dice Uta Melle: “La tua vecchia vita è finita. Ma ne arriva una nuova”.
Trieste, Biblioteca Statale, dal 2o febbraio al 08 marzo 2014, ingresso gratuito
info: bs-ts@beniculturali.it tel: +39 040 300725/ 040 307 463
AMAZONEN, Das Brustkrebsprojekt von Uta Melle mit Fotografien von Esther Haase und Jackie Hardt, Kehrer-Verlag, Heidelberg, Berlin 2011.
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