Siamo partite da questa domanda, semplice e quasi sconsideratamente ingenua, e subito siamo andate oltre. Perché se è evidente che è la definizione stessa di epica che va indagata, nel procedere ci si imbatte in una oscillazione – o piuttosto uno scarto – – che sempre si evidenzia quando entri in gioco la differenza sessuale. Infatti, una volta che ci si inoltri nella via aperta dalla risposta positiva, subito occorre chiedersi: in quali scritture, in quali narrative prende forma quell’epica femminile di cui cerchiamo le tracce? …
Anticipando subito le parole-chiave incontrate nella riflessione, che ci sembra restino da indagare per qualsiasi ragionamento su un’epica di donne. Eroina. Impresa. Coraggio. Mondo. Spostamento.
All’inizio si cercano spunti, suggestioni, le tracce di un cammino per spiarlo nel suo farsi, e sottoporlo all’attenzione consapevole di tutte e tutti in un’operazione critica e politica che ha avuto come guida le domande iniziali. Per pensare a un’epica femminile – e a una eroina che non fosse solo il contrario o la modificazione di eroe: dunque per ridefinire un’esperienza, vederne mutamento e trasformazione, cogliere i passaggi nei quali si fa racconto.
Un primo indizio è stata la motivazione del Premio Nobel per la letteratura attribuito a Doris Lessing nel 2007: “Questa epica cantatrice dell’esperienza femminile, che con scetticismo, ardore e potenza visionaria ha sottoposto a esame una civiltà divisa”. A fronte di questa affermazione, netta ma senza approfondimento alcuno, dell’esistenza di un canto epico dell’esperienza femminile, per di più in una dura situazione di conflitto ci sembrò utile cominciare a identificare gli elementi che caratterizzano l’epica. Discorso su cui torneremo con maggiore ampiezza e dettaglio, per ora tratteggiandone solo una descrizione di base.
Il poema epico (e soprattutto quello basato su una tradizione orale) dà voce a una collettività, esprimendone valori e aspirazioni: è vasta narrazione di gesta straordinarie, compendio di valori e virtù fondative di una stirpe, una gente, una nazione – ai suoi inizi e per lungo tempo in versi, e nella sua forma delle origini inteso alla recitazione. Nasce spontaneamente, incentrato sull’eroe (gli eroi) di cui canta le coraggiose azioni, e ha per uditorio la comunità, che vi vede riflessa un’idea di sé che la sostiene. Esempi inevitabili per il mondo occidentale sono l’Iliade e l‘Odissea, organica rielaborazione di racconti sedimentati in una secolare trasmissione, e – ad essi legata – l’Eneide, epica cosiddetta riflessa, opera di un ingegno individuale che singolarmente forgia in poema il racconto storico-mitico. Nella Poetica – prima sistematica teorizzazione sui generi letterari cui sempre torna utile volgersi – Aristotele (1460a, 24) annota che l’epica può raccontare ciò che la tragedia non può rappresentare: l’impossibile. Per cui “epico” subito richiama un’impresa difficile di ampio respiro, una grandiosità di argomento, visione e forza, e potenzialmente anche qualcosa legato al soprannaturale o al fantastico. E così viene spesso usato oggi il termine, estendendone i confini a comprendere altri generi letterari e certamente il film; a volte purtroppo dimenticando il legame con la comunità nella formazione di un senso condiviso del mondo, per accontentarsi di una superficiale capacità di stupire più pretenziosa che grandiosa.
Rispetto a questo panorama, è la differenza sessuale, cantare da donna l’esperienza delle donne e in tal modo farsi voce di una comunità, che può rendere epica una scrittrice al pari di Omero? Oppure si potrebbe anche forzare il senso di “civiltà divisa” e leggervi un riferimento in più, l’accenno sotterraneo a un mondo di donne e uomini fratturato al suo interno? Cercando risposte, abbiamo trovato – e provocatoriamente inventato – nuove domande che hanno arricchito il panorama della nostra ricerca.
Un’altra spia viene dall’uso ormai frequente del termine “epica” in forma variamente aggettivata (quotidiana, domestica, elegiaca, in questo caso in un gioco voluto tra opposti generi letterari) a proposito di scritture femminili le più disparate: saghe, cicli narrativi anche con inclinazioni fantasy, perfino commediole televisive come Sex and the City. Si può rintracciarlo in recensioni, risvolti di copertina, trasmissioni radiofoniche, incontri letterari; una definizione buttata lì per dire qualcosa che altrimenti non si potrebbe nominare, insomma un’espressione con una forte carica di senso, ma non spiegata, non interpretata – un po’ lo stesso tipo di suggestione presente nella motivazione del premio Nobel a Doris Lessing. Non se ne trova traccia invece nel discorso critico “alto” – come se la lingua corrente accettasse più facilmente, con leggerezza, ciò a cui il “mestiere” di pensare e categorizzare fa resistenza.
Ovvero riconoscere che impresa non è una parola estranea all’esperienza delle donne, anzi. Che ci sono imprese femminili. Hanno a che fare con il “mettere al mondo se stesse”, “mettere al mondo il mondo”. Il mondo, un mondo da conquistare, popolare, dominare, è la scena dell’epica classica: l’esterno, nella logica dell’affermazione di sé. Invece alla donne per molto tempo è appartenuta la casa, il domestico, l’interno; un’epica cantatrice dell’esperienza femminile sarebbe allora una minuta scrittrice di piccole gioie domestiche? Non si tratta solo di liquidare questa visione, cui ormai continuano a credere anche ben pochi uomini, ma di vedere che oggi, vivendo esperienze che le cambiano, avendo loro stesse cambiato il mondo che sempre più pienamente abitano, le donne – o almeno, molte donne – non rinunciano però alla propria visione, non si riducono a essere copie degli uomini. Cosa è lo stare delle donne nel mondo, se non fare mondo? Non è questa l’impresa?
In un certo senso, è come se il discorso critico fosse rimasto ancorato a una epicità che canta “le armi e l’uomo” o eventualmente “le donne, i cavalier, l’arme e gli amori”, laddove fulcro dell’azione eroica restano comunque gli uomini, e la presenza femminile si giustifica intrecciandosi senza scampo con una trama romanticamente amorosa. Non che in letteratura, dopo decenni di pensiero femminista e la creazione anche in ambiti istituzionali di una critica letteraria ad esso legata, manchino studi che scompigliano gli ordinati incroci normativi che Ariosto e tanti altri hanno così deliziosamente rappresentato; una speciale attenzione è dedicata per esempio alla vistosa eccezione delle guerriere, donne che si fanno uomini, maneggiano le armi e fanno la guerra, come Bradamante.Ma non ne risulta un vero scarto critico, un cambiamento simbolico che metta in questione e almeno potenzialmente modifichi alla radice la visione del mondo che si incarna nelle varie versioni dell’archetipica amazzone
E qui, con una momentanea deviazione, è il momento di chiedersi se perché ci sia epica è necessaria la guerra, o se questo assioma testimoni piuttosto l’arresto del discorso critico al tema dell’antieroe, novecentesca e maschile incarnazione di una crisi ancora non consumata: l’insicuro e scialbo Mr. Bloom dell’Ulisse di Joyce, “epica del corpo umano” secondo la definizione dello stesso autore (Budgen 1972, p. 21), che in essa vuole, ripercorrendo parodicamente e insieme tragicamente gli episodi dell’Odissea, “rendere il mito sub specie temporis nostri”(Joyce 1975, p. 270), e dunque rovescia il canone epico raccontando non gesta straordinarie, ma le minuzie della vita quotidiana di un giorno qualsiasi di un uomo qualsiasi; o lo spaesato giovane senza padri, il “catcher in the rye” di Salinger, adolescente – maschio – alle soglie dell’età adulta e alle prese con le difficoltà di un romanzo di formazione che ormai non ha più regole. Epica depotenziata, che si risolve in parodia, elegia e nostalgia. Nostalgia dell’epica, crisi del soggetto maschile che ricondotto a parzialità non sa raccontarsi come tale, e si racconta allora nel ricordo e all’ombra di quando era tutto.
Ma tornando alle guerriere delle epiche rinascimentali e alle loro moderne epigone, c’è un tratto che varrebbe sottolineare, e che un po’ le accomuna a quelle (improbabili?) eroine di cui oggi si parla e si scrive in narrative che come soprappensiero vengono definite epiche; anche loro, in verità, per quanto combattano a somiglianza degli uomini e da uomini si travestano, non riescono a essere del tutto mimetiche al maschile. Restano comunque donne, tanto quanto una Rossella O’Hara, eroina del passato che si potrebbe analizzare come un prototipo, o una Lady Oscar e una Tomb Ryder, forse più propriamente definibili delle avventuriere; certo diversamente dalle protagoniste di storie a cavallo del terzo millennio, che quasi sempre compiono ben altre imprese: non hanno una famiglia modello, tirano su bambini da sole e mantengono famiglie, amano, si sposano, si separano, amano una donna, si liberano. L’impresa, fatta da donne, sembra plurima, tra costruzione della propria singolarità e fare mondo. Qui si prova il loro coraggio.
Ma la più necessaria delle parole è spostamento. Non c’è impresa, azione, coraggio se non ci sposta – ce lo insegnano tutti gli studi sul mito, sulla fiaba, sulle narrazioni fondative di culture e tempi disparati; si vedano, per restare a testi ormai classici, le analisi di Propp (1966) e di Campbell (1971). E allora da dove si sposta, un’eroina? In quali direzioni? Lo spostamento può essere, in certo senso deve prima di tutto essere interiore; è interrogazione e ricerca di sé, rifondazione dell’ordine simbolico che governa il mondo, scompaginamento e trasformazione delle relazioni. E naturalmente può essere, spesso è, anche spostamento fisico – ad esempio quello, colossale, che sta avvenendo nella nostra contemporaneità, dove molte donne si spostano da una parte all’altra del mondo lasciando la famiglia, compresi i figli, in cerca di lavoro; come dicono i dati più recenti nei flussi migratori a spostarsi sono in maggioranza le donne, anche se le retoriche pubbliche sono tuttora centrate su “il migrante”. Spostamenti di corpi e menti che danno vita a narrative ibride di lingue e tradizioni, forti e potenti, vere epiche migranti; mentre lo spostamento interiore porta a una diversa idea di eroismo, al rifiuto invece che all’esaltazione della guerra, a domande profonde sul senso di concetti come nazione e appartenenza.
Quasi contemporaneamente alle nostre iniziali riflessioni, in Italia si avviava un acceso dibattito sul cosiddetto memorandum di Wu Ming 1 sulla New Italian Epic (NIE), o nuova narrativa epica italiana; un fuoco di interesse mediatico che nei suoi sviluppi ebbe anche aspetti irritanti, ad esempio per quella tendenza alla rissosità che i media troppo spesso incoraggiano per sollevare e mantenere viva l’attenzione, e di conseguenza per quel tanto di superficialità che almeno in parte segnò la discussione. Sebbene la proposta, che comunque presentava punti di interesse, e la successiva fioritura di commenti, critiche, repliche e controrepliche, non siano state centrali per i nostri ragionamenti, altrimenti indirizzati, esse permettevano di individuare alcuni elementi di riflessione sulla forma epica, e soprattutto testimoniavano della sua vitalità, del suo ricorrente apparire in trasformazioni infinite – soprattutto inserite nel contesto del ricco e articolato panorama di studi che su questo tema si stava dispiegando in campo internazionale. Per questo ne parliamo qui e per questo, crediamo, se ne trova traccia, con atteggiamenti diversi, in alcuni dei saggi del volume.
Nel rileggere i motivi per cui Wu Ming 1 definisce epiche le narrazioni di cui parla – soprattutto romanzi, ma anche oggetti compositi che si meticciano con la scrittura saggistica, il reportage giornalistico, la riflessione autobiografica e introspettiva – è evidente la consonanza con alcuni tratti contenutistici tradizionalmente attribuiti a questo antico genere. Basti pensare al riferimento a “imprese storiche o mitiche, eroiche o comunque avventurose […] all’interno di conflitti più vasti che decidono le sorti di classi, popoli, nazioni o addirittura dell’intera umanità” (Wu Ming 2009, p.14). Sono narrative in cui possono anche fondersi “elementi storici e leggendari”, fino a “sconfinare[re] nel soprannaturale”; e sono “grandi, ambiziose, ‘a lunga gittata’, ‘di ampio respiro’” (ivi, pp. 14 e 15); ancora una volta sembrerebbe soprattutto a livello dei contenuti, delle questioni che affrontano – sebbene si accenni anche a immani difficoltà di scrittura. Però, e non è differenza di poco conto, con una sorta di emarginazione dell’eroe, che può anche mancare e “quando c’è, non è al centro di tutto ma influisce sull’azione in modo sghembo” (ivi, p. 31) – del resto, dove sarebbe il nuovo, se del tutto si riprendessero modalità e aspetti già codificati?
In verità l’epica non è mai stato un insieme unitario e immobile, e già altre successive modificazioni l’hanno attraversata: già nell’epica classica, le differenze tra Iliade e Odissea da un lato e Eneide dall’altro sono significative tanto quanto le somiglianze – di mezzo ci sono il passaggio dall’oralità alla scrittura (per quelle momento di rielaborazione finale in un percorso di secoli, per questa acquisita tecnologia di trasmissione), una nuova e diversa idea di “autore” e di committenza, una maggiore, più diretta consapevolezza del senso politico del poetare e dei poemi; ma le uniscono il tipo di argomenti trattati, la struttura a episodi, i richiami di stile. Inizia a formarsi una genealogia che con mutazioni e ritorni si dipana fino all’oggi; e tra le mutazioni c’è quella che a noi soprattutto interessa raggiungere – il formarsi anche di un’epica femminile.
Ma per andar per ordine: nella sua forma delle origini e per lungo tempo, l’epica è narrazione in versi (con aspetti di ripetizione di formule legati all’oralità) che fa fulcro sulle gesta guerriere o avventurose dell’eroe, e si rivolge a una comunità di cui crea o rafforza il senso di sé. Sono poemi che celebrano, affermano e confermano una visione del mondo, un sistema di valori, una identità collettiva; ma che sanno anche analizzare e sotterraneamente mettere in questione ciò che viene celebrato, spesso attraverso un femminile sacrificale che garantisce e insieme interroga il processo fondativo della comunità. Infatti la rappresentazione della donna – e per altri versi quella dei vinti, in quanto l’una e gli altri figure di alterità e di possibile snodo delle vicende in direzioni non previste, che dunque possono costituire un pericolo per la continuità, la gerarchia e l’ordine – è luogo cruciale della rappresentazione del mondo e del suo modificarsi, in un genere “tradizionalmente considerato maschile, che ha per soggetto la fondazione, l’ordinamento e la difesa della città, e il passaggio di responsabilità e potere da padre a figlio” (Suzuki 1989, p. 1). Delineando la sua ipotesi di ricerca sulle trasformazioni della figura di Elena, Suzuki argomenta che nell’epica la donna è figura della differenza dall’autorità patriarcale e delle istituzioni, che permette al poeta di sostenere e insieme sottilmente criticare la tradizione e lo stato delle cose. Facendo uso, a volte in polemica con esse, delle teorie del sacrificio e del capro espiatorio (Hubert e Mauss, Turner, Burkert, Girard), sostiene inoltre che nei testi epici la donna ha spesso il ruolo di vittima di un rituale purificatorio; contrassegnata dall’ambiguità, insieme attraente e orribile, deve essere distrutta o espulsa per proteggere la comunità (degli uomini) da situazioni di angoscia o di pericolo. Ma poiché il potere e la collettività sono definiti dalle loro negazioni – il potere da ciò che subordina, la collettività da chi esclude – l’assegnazione della donna alla sfera del negativo svela e mette in questione il meccanismo repressivo del processo di rappresentazione simbolica che sta allo stesso tempo attuando.
È per questo che, senza volerlo disconoscere, si può mettere in questione anche il carattere “patriarcale” dell’epica; perché esso fin dall’inizio presenta le sue crepe, che si ritrovano modificate nei vari passaggi dell’eterna vita di una forma troppo affrettatamente data per morta.
Paola Bono e Bia Sarasini ( a cura di) Epiche. Altre imprese, altre narrazioni Iacobelli Editore, Roma 2014, 240 pagine, 14,90 euro
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