In un Festival veneziano pieno di sorprese dove gli aspiranti blockbuster hollywoodiani si sono rivelati spesso i titoli più deludenti, mi sono rimasti impressi, più degli altri, quattro film. Squarci emozionanti su realtà spesso drammatiche e dai risvolti inaspettati, dall’Indonesia alla Cina, da Cuba all’Iran.
Straordinario e terribile è The Look of Silence di Joshua Hoppenheimer, classe 1974, texano di nascita e danese di adozione. Il film, applauditissimo a Venezia e gran premio della Giuria, è già distribuito in alcune sale grazie all’impegno della I Wonder Pictures. Comincio dalla fine: nella spoglia casa indonesiana si muove a carponi il vecchissimo padre del protagonista, Adi Rukun, che ha perso completamente la memoria ma conserva il ricordo della paura, l’angosciosa sensazione di essere intrappolato. Sono gli ultimi fotogrammi di una commovente sequenza girata dallo stesso Adi, come racconta il regista, in un’intervista dove spiega il senso profondo di questo documentario complementare del precedente The Act of Killing (2012). Il film che fa rivivere e rielabora il massacro di un milione di comunisti nell’Indonesia del 1965, dopo la presa del potere da parte dei militari, non è solo la ricostruzione di un passato rimosso, ma è un atto coraggioso e ineludibile per arrivare alla verità e alla riconciliazione, a quella guarigione delle ferite che Adi e la sua famiglia hanno impresse nella carne. Il protagonista è un ottico che con la scusa di misurare la vista ai vecchi potenti, dai volti rugosi e dai sorrisi sdentati, va alla ricerca degli assassini del fratello Ramli, ucciso in un crescendo di ferocia e sadismo, una sequenza di atti mimati quasi con ilarità dagli stessi colpevoli. Perché questo è il vero orrore: ci può essere orgoglio per aver sterminato dei nemici, oppure insofferenza di fronte alle domande incalzanti e “troppo politiche” di Adi, o ancora desiderio di dimenticare, ma non c’è traccia di rimorso né nei responsabili, né nei semplici esecutori, e nemmeno nei complici, come lo sono alle volte gli stessi parenti delle vittime. Solo due donne, la figlia di un assassino e la vedova dell’aguzzino che ha illustrato in un libro le sue oscene imprese sembrano avere dei sentimenti e chiedono perdono. Quanto era epico The Act of killing che induceva i colpevoli a mettere in scena il massacro, tanto questo film è intimo: filma la famiglia di Adi, segue il dolore della madre che mille volte rivanga la fine drammatica di Ramli e sarebbe morta di disperazione se non avesse messo al mondo Adi due anni dopo quel lutto. Ma si sofferma anche sui due figli di Adi con naturalezza giocosa mostrando l’indottrinamento scolastico cui ancora oggi il bambino deve sottostare. Quella propaganda vigliacca per cui i comunisti erano i senza Dio da eliminare, che incoraggiò il massacro dietro cui si nascondeva l’esercito. Un eccidio durante il quale gli assassini, quasi sfiniti dall’eccesso di violenza, bevevano il sangue della vittime credendo così di evitare la pazzia. Ma come fanno questi uomini tronfi e arricchiti a convivere con le famiglie delle vittime? Intimidazione, paura o semplicemente rassegnazione? Questo è un film coraggioso perché è la prima volta che viene ricostruita da parte di un sopravvissuto la memoria di atti terribili compiuti da una classe che è rimasta saldamente al potere. E ci vuole un coraggio davvero incredibile per andare alla ricerca della verità come fanno Joshua e Adi: racconta il regista che la famiglia ha dovuto cambiare paese, trovando rifugio a Nord di Sumatra, sempre tra quella natura mite e rigogliosa che sembra impossibile sia stata il teatro di una storia così vergognosa.
Dall’Indonesia alla Cina tormentatadi Red Amnesia di Wang Xiaoshuai (tra i suoi film più noti Le biciclette di Pekino del 2001). Il film non ha vinto alcun premio ma riesce a tenere alta la tensione, trovando un felice equilibrio tra il thriller e l’apologo politico che entra nel vivo del processo di rimozione collettiva e individuale del Paese. Deng, un’instancabile signora da poco rimasta vedova (la bravissima Zhong Lü), vive da sola ma fa continue irruzioni nella vita dei figli, uno dei quali con suo grande disappunto è gay, cucina per loro, va a prendere il nipote a scuola, accudisce l’anziana madre nell’ospizio. La sua routine viene scombussolata da uno stillicidio di telefonate mute e minacciose seguite da atti anonimi e sgradevoli che coinvolgono anche i figli. Ma chi è quel ragazzo che sembra un fantasma sbucato dal nulla, la segue, entra nella sua casa? A poco a poco emerge un segreto inconfessato che la riporta ai tempi della vittoria della Cina rivoluzionaria (1949) e a decisioni dolorose prese per proteggere i figli. Un passato con cui ci sono ancora troppi conti aperti. Riaffiora così il trauma di intere generazioni vissute tra città e campagna, nuova industrializzazione e processi migratori. Wang Xiaoshuai attraverso un ritmo lento e immagini quasi calligrafiche per fascino ed eleganza ci immerge nella vita e negli incubi della protagonista, creando un ritratto intenso e originale.
Cinque sono i magnifici protagonisti di Retour à Ithaque (Ritorno all’Avana), il nuovo film di Laurent Cantet, vincitore a Venezia del premio “Giornate degli autori”, che uscirà nelle sale italiane il 30 ottobre. Sopra una terrazza che domina il malecón e i tetti di un’Avana un po’ fatiscente, percorsa da riti arcaici come l’uccisone del maiale, cinque amici si ritrovano per festeggiare il ritorno nell’isola di Amadeo (Nestor Jimenez) dopo 16 anni di esilio madrileno. In una sorta di “grande freddo” s’intrecciano i dialoghi, prima allegri, poi sempre più malinconici e drammatici di questa piccola brigata di cinquantenni disillusi. Accanto a Tania (Isabel Santos) l’unica donna del gruppo, afflitta dalla partenza del figlio alla volta di Miami, ci sono Rafa (Fernando Hechevarria), un artista dal passato troppo alcolico che ha dovuto rinunciare alla pittura, Aldo (Pedro Julian Diaz Ferran), il padrone di casa, forse il meno amareggiato dal crollo del grande sogno, e infine Eddy (Jorge Perrugoria), apparentemente uomo di successo, consapevole però di avere ceduto ai compromessi. Il regista (Palma d’oro a Cannes per La classe nel 2008) con grande trasporto e senza inutili psicologismi racconta solo attraverso la forza delle parole i percorsi paralleli dei cinque amici che hanno condiviso molte speranze, ma la cui vita è stata pesantemente condizionata, e in alcuni casi stravolta, dalle limitazioni e dai fanatismi del regime cubano. Che si rivelano con forza ancora maggiore quando si scopre il segreto nascosto dietro la partenza di Amadeo. Il film mi è piaciuto molto per il pudore e l’equilibrio con cui il regista dipinge le sfumature di questa profonda autocritica che lascia spazio all’amarezza e al rimpianto senza trovare però nessuna facile alternativa.
Ed ecco, infine, uno sguardo femminile per ritrarre l’Iran contemporaneo. In Ghesseha (Racconti) Rakhshan Bani-Etemad, la sessantenne “signora del cinema iraniano”, assembla una serie di corti, intrecciando le vicende di mogli vessate, uomini senza lavoro, pensionati sconfitti dalla burocrazia, giovani che si ribellano a padri dispotici. Temi scomodi che non nascondono le lacerazioni create da disoccupazione, droga e corruzione in un paese alla ricerca di una “modernità” ancora quanto mai lontana e utopistica. E tuttavia lasciano spazio alla speranza, come promette nel finale uno dei personaggi, il cineasta che riprende tutto con una telecamera: “Nessun film resterà chiuso nel cassetto. Un giorno o l’altro si vedrà”. Purtroppo questo per ora non accade a Jafar Panahi, condannato a sei anni di carcere, o a Mahnaz Mohammadi, attivista reclusa per i suoi film in difesa dei diritti delle donne. Ghesseha, che ha vinto a Venezia il premio per la miglior sceneggiatura, è frutto di un lavoro iniziato, abbandonato, ripreso durante otto lunghi anni in cui la regista è riuscita, grazie ai corti, a evitare la censura del regime di Ahmadinejad. Ogni episodio si lega a quello successivo attraverso un personaggio; i più belli e toccanti sono quelli dove Rakhshan Bani-Etemad evita le storie un po’ scontate (la donna ustionata dal marito che si rifiuta di tornare con lui o il pensionato che si trova di fronte un burocrate arrogante e inetto) mettendo in scena invece vicende più complesse. È il caso, ad esempio, dell’uomo, accecato dalla gelosia, che accusa la moglie di infedeltà per aver ricevuto dall’ex marito ricco una lettera che poi si rivela un dolente e affettuoso lascito testamentario. Così come colpisce l’incalzante dialogo conclusivo, che adombra un sentimento amoroso, fra un giovane autista (l’attore Peyman Moaadi, protagonista maschile dell’acclamato Una separazione di Asghar Farhadi) e una donna che soccorre le prostitute. Personaggi che interpretano lo sforzo di cambiamento di un paese faticosamente impegnato a costruirsi una nuova identità.






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