C’è voluto coraggio, e un pizzico di incoscienza, a dire personagge. Eppure, una volta nominate, si sono imposte con la forza di un’idea semplice e necessaria. Non è un dettaglio dire nella forma più limpida di che genere sia – abbia scelto di essere – attraverso quali generi transita il personaggio di cui si parla – in un romanzo, una piéce teatrale, un film, un serial tv, una performance, una poesia. La lingua, come sempre, viene in soccorso quando non è costretta da abitudini che si pretendono regole, e la chiarezza ripristinata dalla norma grammaticale aiuta a vedere ciò che la mentalità corrente tiene sottotraccia. Una volta affermate, sono lì, le personagge. Bastava osservarle, interpretarle. Ri-scriverle, secondo la proposta di Adrienne Rich (cfr. Paola Bono 2011). Perché non hanno un limite temporale, personagge lo sono tutte, anche le più antiche. Anche se sono le contemporanee, ora, a sollecitare riflessioni. E la domanda è semplice. Autrici e autori, oggi, nel dare parola e corpo – letterario e simbolico – alle loro personagge, cosa raccontano? Quale figura costruiscono? Cosa mettono in gioco? In altri termini, si cerca chi siano le eroine contemporanee, ben sapendo che eroina – ed eroe– sono termini connotati, osservati con più di un sospetto. E soprattutto la ricerca è su come interpretare – eventualmente raccontare – l’autonoma esistenza di queste creature inventate nella mente collettiva, quella che vive degli scambi tra chi legge, chi scrive, chi semplicemente immagina.
1. Per esempio, Lila e Lenù. Chi legge il ciclo dei quattro romanzi di Elena Ferrante – la scrittrice che non vuole mostrarsi –raccolti sotto il titolo de L’amica geniale e pubblicati tra il 2010 e il 2014, inevitabilmente prende parte delle vicende dell’una o nell’altra delle due amiche protagoniste. O di entrambe. Succede perfino a chi non apprezza il risultato complessivo dell’opera. Si impreca contro la scelta di Lila– così bella, intelligente e forte – che si rovina la vita scegliendo il matrimonio a sedici anni. Ci si infuria con Lenù, che fatica a riconoscere il proprio valore, perfino quando è una scrittrice e intellettuale affermata. E per certi aspetti è proprio questo coinvolgimento che insospettisce chi critica il romanzo, che vi rintraccia elementitroppo marcati di feuilleton, o di contemporanee e televisive soap –opera. Ci si dimentica troppo facilmente che lettrici e lettori – oggi come nel passato – non perdonano a Natasha di aver creduto agli inganni del principe Anatol’ Kuragin, o si chiedono da sempre di che cosa sia esattamente morta Emma Bovary.
Sono le personagge, i personaggi, che trascinano dentro a un testo. Sono loro che fanno amare (o odiare) un libro, autori e autrici. Si collochi l’opera nell’alto o nel basso della produzione letteraria. Ammesso che questa distinzione abbia un senso, per chi legge. Eppure questo approccio – il grado zero della lettura, si potrebbe dire –non soddisfa chi non si limita a leggere, ma vuole anche riflettere sull’invenzione letteraria. La questione si pone fin dagli inizi. Aristotele, a proposito della tragedia, nella Poetica scrive, «non è che i personaggi agiscono per rappresentare i caratteri, ma a causa delle azioni includono anche i caratteri» (Aristotele, 2000, pag. 69), essendo, come è noto, il fine della tragedia l’azione e il racconto. Quello che importa, insomma, non sono le psicologie, i sentimenti: ciò che conta è ciò che si fa. Il resto è rivestimento, arricchimento, abbellimento. E quindi soggetto a essere ritenuto inessenziale. Come è avvenuto nell’universo della critica letteraria, soprattutto in quella parte del Novecento che, tra strutturalismo e narratologia, ha privilegiato più le forme che tutto il resto. Ovviamente si tratta di questione complessa, di cui qui non si può dare qui altro che qualche fuggevole cenno. È però evidente che nominare le personagge significa in realtà entrarvi a piè pari, fare una scelta. Soprattutto per quella domanda essenziale: cosa fanno, quali azioni compiono le eroine contemporanee? C’è qualche differenza con il passato? In altri termini, l’ipotesi è che nell’osservarne le azioni, delle personagge, se ne ravvisino le fisonomie mutate, il rispecchiamento e le anticipazioni visionarie che scrittrici e scrittori hanno elaborato dei cambiamenti che hanno investito donne, generi, sessi. C’è un nesso, insomma, tra azione e carattere, parola che come è noto in inglese non identifica l’aspetto psicologico, ma dice appunto, il “personaggio”. Un nesso che nel nominare “personagge”, si apre a nuove illuminazioni.
2. «Scrivere è una forma socialmente accettabile di schizofrenia» ha detto E.L.Doctorow in un’intervista a Paris Review: «Puoi combinarne di tutti i colori e passarla liscia. Uno dei miei figli ha detto una volta – una verità tremenda, sul serio, e solo un bambino piccolo poteva dirlo: “Papà si nasconde sempre nel suo libro”.
Sembra la strada più promettente, ascoltare chi scrive, autrici e autori. Anche quando infuriano le controversie letterarie, procedono per la loro strada e spesso sono piuttosto espliciti nell’indicare a quale livello stanno lavorando. Almeno da quando si è chiusa l’era dell’autore onnisciente, e ha preso campo la parola che viene dai personaggi, quindi plurale, che Michail Bachtin identifica già nell’opera di Dostoevskij. Basti pensare a Elsa Morante, che definisce “alibi” quell’”io recitante” che prende vita nel romanzo. (Morante 1990, “Sul romanzo” pp.1497-1520). Oppure a Luce d’Eramo, che già nel titolo di Io sono un’aliena, (d’Eramo1999) il libro in cui riflette sulla scrittura e mette a fuoco la sua poetica, dice della scrittura come occasione di sperimentare la diversità, attraverso i personaggi. Un concetto che così esprimeva in un’intervista del 1993: « Io li spio, i miei personaggi. Non so nulla del loro passato tranne quello che sanno loro in quel momento. Così entro in rapporto con l’altro, con quello che ti è alieno». Mentre Stephen King, per cambiare genere e sesso, in Misery ( King 2010) dà una rappresentazione complessa e indimenticabile della relazione tra autore, lettore e personagge. Ben due, in questo romanzo. Lo sono, personagge, sia Misery Chastain, la protagonista della serie che l’autore-personaggio del romanzo ha deciso di far morire come risulta dal manoscritto che ha con sé; sia Ann Wilkes, l’infermiera che lo soccorre e lo accudisce dopo un terribile incidente stradale, e che dopo aver letto il manoscritto lo costringe a scriverne una nuova versione, in cui Misery continua a vivere. Una messa in scena veramente articolata di uno dei dilemmi centrali della narrazione: a chi appartiene la storia? E a proposito di personagge, e delle azioni che compiono, vorrei ricordare almeno un’altra figura delineata da King: Dolores Claiborne, la protagonista dell’omonimo romanzo (King 1993), monologo-confessione di una madre proletaria che ha ucciso il marito durante un’eclisse di sole per proteggere la figlia.
Insomma, la ricerca sulle personagge porta alla luce figure multiple, costruite con elementi multiformi: sono poli-segniche, polisemiche. Le contemporanee si muovono, si spostano, affrontano imprese. Non sono fedeli a modelli e non li riproducono, più spesso, come accade in narrazioni che vivono nell’epoca di ciò che viene dopo – dopo il moderno, dopo il femminismo, dopo la fine dei grandi sistemi ideologici – con i modelli ci giocano.
3. Come Lisbeth Liskander, la protagonista della trilogia Millenium, di Stieg Larsson. È evidente che si tratta di una figura del transito, non collocabile in un genere definito. Piccola di statura, minuta, sottile, quindi molto femminile. Eppure dotata di una forza indomabile, quindi molto maschile, ama le donne, ma anche gli uomini, di cui in ogni caso diffida. Genio informatico – e non solo – per la società è una disabile, una minorata psichica da tenere sotto tutela. Lisbeth è una solitaria, una che vive ai margini della vita sociale, ai limiti dell’autismo. I suoi molti talenti, che hanno il carattere speciale, quasi magico, attribuito ai doni dei supereroi dei fumetti, la rendono capace di cavarsela. Il suo primo obiettivo è: non fare sapere nulla di sé a nessuno, non dipendere da nessuno. La totale autosufficienza. Non solo per la sopravvivenza materiale, soprattutto per lei è importante non dipendere negli affetti. Vittima, come sua madre prima di lei, dei più terribili soprusi che una donna possa subire dagli uomini, agisce la rabbia e si vendica in modo grandioso. È una personaggia che non ha genealogie letterarie evidenti, tranne forse da quella speciale letteratura popolare che è la graphic novel.
Ora non sfugge che l’autore di questa personaggia sia un uomo, proprio come Stephen King, o come è stato il regista Quentin Tarantino a raccontare Beatrix Kiddo, la vendicatrice di Kill Bill 1-2 (2003-2004). Fa parte della costruzione della personaggia, il genere dell’autore. Ma qualunque cosa si pensi della punizione di uomini per mano di donna che propone l’autore di Uomini che odiano le donne, è evidente che le lettrici, le spettatrici amano Lisbeth.
Mentre non si può amare Erika Kohur, la protagonista de La pianista, per quanto scritta da Elfriede Jelineck, una donna, Premio Nobel nel 2004. Preferibilmente la si odia, o al più le si concede un sentimento intermedio tra lo sgomento e la profonda compassione. Erika è coltivata, educata, è un’artista, è una creatura in mano a sua madre. Della società, delle sue leggi, è una schiava, la rabbia che la anima non si manifesta fuori di sé, piuttosto la consuma e la divora. E non suoni spericolato l’accostamento tra queste personagge dalle origini così diverse, la bassa cucina del best-seller per Lisbeth, l’aristocrazia della letteratura d’avanguardia per Erika. Con tutte le opportune accortezze metodologiche, il campo della ricerca non ha confini. Come accorgersi altrimenti che i lati oscuri di una personaggia sono esattamente ciò che l’autrice/l’autore vuole mettere in scena? E che invece di distruggerla ai nostri occhi, ne sono i punti di forza?
Certo, per proseguire in questi ragionamenti, bisognerebbe sapere chi sono i personaggi, per autori e autrici, cioè per chi li inventa. Se sono creature che provengono dalla vita interiore, dai fantasmi dell’inconscio di chi scrive, di chi inventa, qualunque sia il linguaggio, la scrittura usata, la loro speciale forza è che entrano nel cuore, nella mente di chi legge, guarda, ascolta. Aspetto cruciale per quel settore degli studi letterari che prende le mosse dal cognitivismo, e trova chiavi di lettura inedite per la vita dei personaggi, in un incrocio fruttuoso (cfr. Neri 2012). Soprattutto quando diventano figure dell’immaginario collettivo e vivono una propria vita, indipendente, a prescindere da qualunque progetto d’autrice, o autore.
Come è successo a Don Giovanni, l’antico burlador de Sevilla, non solo protagonista di infinite ri-scritture, ma figura chiave della psiche, maschile e non solo. Per non parlare di Emma Bovary, donna immaginaria che diventa un tipo ideale, definisce un comportamento e uno stile di vita, un modello di perversione. Ma anche Jo e le sue sorelle, le Piccole Donne, hanno una loro esistenza del tutto indipendente dal romanzo di Louisa May Alcott, e costituiscono il riferimento di una infinita serie di trame che hanno al centro le relazioni femminili, comprese le quattro amiche protagoniste del serial tv di Sex and The city. E di chi è Holly Golightly, la prostituta estroversa e tenera di Colazione da Tiffany: della sua interprete Audrey Hepburn, del regista Blake Edwards che ha diretto il film (1961), o dell’autore del romanzo Truman Capote? O di lettrici/lettori, di spettatrici/spettatori che ne custodiscono le parole e/o le immagini, una specie di guida interiore per inventarsi un proprio mondo. O ancora, facendo salti e capriole, chi è L’Iguana, di Anna Maria Ortese? Quali mutazioni ci testimonia, quali passaggi impercettibili e definitivi, sono racchiusi nella grazia inimitabile di questa meravigliosa personaggia?
E Elisabeth Bennet, la protagonista di Orgoglio e pregiudizio, quante volte è stata ri-scritta, ri-letta? E con lei tutte le eroine di Jane Austen? Una motivazione, una chiave di lettura di queste sempre attuali personaggela fornisce Liliana Rampello: «La narrazione muove le protagoniste lungo un percorso che non si struttura, secondo il canone della tradizione maschile, come “avventura dell’io”, ma come trasfomazione di sé in relazione con l’altra e con l’altro […]il dialogo è l’azione necessaria e sufficiente» (Rampello 2014, pag. 15). Un’interpretazione che nell’individuare nella conversazione l’azione inedita che dà forma alle personagge, già risponde alle domande-guida, cosa fanno le personagge.
L’invenzione delle personagge, a cura di Roberta Mazzanti, Silvia Neonato, Bia Sarasini
testi di: Ester Armanino, Clotilde Barbarulli, Liana Borghi, Anna Maria crispino, Maria Rosa Cutrufelli, Anna D’Elia, Barbara Della Polla, Alessandra Fabbri, Monica Farnetti, Annamaria Fassio, Laura Fortini, Valeria Gennero, Anilda Ibrahimi, Emilia Marasco, Roberta Mazzanti, Chiara Mezzalama, Gabriella Musetti, Silvia Neonato, Francesca Pasini, Rosella Postorino, Claudia Priano, Lidia Ravera, Bia Sarasini, Nadia Setti
con interviste a: Chiara Ingrao, Dacia Maraini, Laura Pariani, Valeria Parrella Silvia ricci Lempen, Clara Sereni, Valeria Viganò
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